sabato 20 ottobre 2012

Dall’emancipazione attraverso il lavoro, all’emancipazione dal lavoro



Partendo dalla riflessione marxista del conflitto di classe, conflitto determinato da una divisione del lavoro arbitrariamente imposta dalla logica del capitale, in questa breve dissertazione si vuole analizzare il mutamento strutturale e strumentale che il rapporto individuo-lavoro ha subito nel corso dei secoli.
Le società preindustriali vedevano nell’attività lavorativa una parentesi fondamentale per la crescita spirituale. Una cultura della fatica in cui l’essere e il dover essere non potevano che coincidere. Zappare la terra, piuttosto che trascrivere testi a mano non veniva visto come un momento di negazione alla propria libertà individuale, ma un impegno necessario già previsto nell’ordine naturale delle cose. Così pure la divisione in classi sociali.
Le due rivoluzioni industriali hanno, tuttavia, modificato completamente la struttura della società che, da società divisa in classi si è trasformata in società di massa. Una democrazia strutturale che però doveva ancora raggiungere il suo significato sostanziale: essere tutti uguali formalmente non presupponeva, infatti, un’uguaglianza reale. Ecco che la riflessione sociologica del diciannovesimo secolo non può che puntare il dito sulle logiche lavorative che le due rivoluzioni industriale hanno imposto.
Per Marx la lotta di classe tra proletari e borghesi, determinata dalla differenza nell’essere salariati o capitalisti, poteva terminare solo con una rivoluzione che sarebbe poi sfociata, prima nella dittatura del proletariato e solo poi nel comunismo, inteso questo come forma alternativa alla coercizione politica. La storia ha poi posto in evidenza la grande differenza tra comunismo reale e comunismo ideale, analisi questa che per ovvie ragioni di contenuto non saranno trattate in questa esposizione. Dissertazione che, invece, vuole riflettere sulla metamorfosi del concetto di alienazione. Se nei secoli precedenti a questo che stiamo vivendo si ricercava la propria emancipazione attraverso il lavoro[1],  perché la “fatica lavorativa serviva per il proprio sostentamento ” , oggi le trasformazioni sociali hanno fatto sì che l’uomo non necessariamente lavori per produrre e per un mantenimento di tipo economico. Spesso accade che vi sia più una necessità psicologia e sociale che materiale, come se l’attività lavorativa determinasse l’individuo in sé. Non più dunque l’equazione essere-dover essere, piuttosto identità personale e status socio-lavorativo.
Alcune teorie sociologiche sostengono infatti che ci sarà un tempo in cui nessuno più lavorerà per produrre, ma che l’attività che noi oggi definiamo lavorativa e quindi di fatica, non sarà altro che l’utilizzo libero di ciò che amiamo fare. Dunque non più obbligazioni ma piena libertà di occupare il proprio tempo libero. Tuttavia, anche il concetto di tempo libero, richiede una gerarchizzazione e una razionalizzazione che vede, da una parte il lavoro propriamente detto, e dall’altra il riposo così come ogni individuo lo immagina.
Il lavoro dunque non renderebbe liberi, ma relegherebbe l’individuo in categorie imposte dalla cultura che la società moderna avrebbe determinato lungo il cammino della storia dell’uomo.




"La storia di ogni società è stata finora la storia di lotte di classe. Uomo libero e schiavo, patrizio e plebeo, barone e servo della gleba, membro di una corporazione e artigiano, in breve oppressore e oppresso si sono sempre reciprocamente contrapposti, hanno combattuto una battaglia ininterrotta, aperta o nascosta, una battaglia che si è ogni volta conclusa con una trasformazione rivoluzionaria dell'intera società o con il comune tramonto delle classi in conflitto. Nelle precedenti epoche storiche noi troviamo dovunque una suddivisione completa della società in diversi ceti e una multiforme strutturazione delle posizioni sociali. Nell'antica Roma abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel Medioevo, feudatari, vassalli, membri delle corporazioni, artigiani, servi della gleba, e ancora, in ciascuna di queste classi, ulteriori specifiche classificazioni. La moderna società borghese, sorta dal tramonto della società feudale, non ha superato le contrapposizioni di classe. Ha solo creato nuove classi al posto delle vecchie, ha prodotto nuove condizioni dello sfruttamento, nuove forme della lotta fra le classi. La nostra epoca, l'epoca della borghesia, si caratterizza però per la semplificazione delle contrapposizioni di classe. L'intera società si divide sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi che si fronteggiano direttamente: borghesia e proletariato".
(Marx-Engels, Manifesto del partito comunista - 1848)

Il filosofo, storico, sociologo ed economista tedesco, Karl Marx (1818-1883), nella la sua forse più importante opera, Manifesto del partito comunista, scritto a quattro mani con l’amico Engels, sostiene che la storia dell’uomo altro non è che un conflitto di classe ininterrotto, conflitto che sfocerà in una grande rivoluzione che vedrà il proletariato come il vero e unico protagonista della storia, in contrapposizione alla borghesia. Là dove per proletariato si intende la classe dei moderni salariati che, non avendo mezzi di produzione propri, sono ridotti a vendere la loro forza-lavoro per vivere, e per borghesia si intende la classe dei moderni capitalisti, proprietari dei mezzi di produzione. Ciò tuttavia non significa che Marx ritiene esclusivamente negativa la classe borghese. Anzi. Pur con tutte le sue contraddizioni sia Marx che Engels ritengono che alla borghesia debbano essere riconosciuti meriti di grande portata storico-politica, in primo luogo perché questa classe sociale, che ha visto la sua grande avanzata con la rivoluzione francese, ha abbattuto le rigide barriere del feudalesimo e ha permesso uno sviluppo economico universale e razionalizzato. Eppure, il suo destino è quello di generare una classe avversa (il proletariato) destinata a soverchiarla. Come la borghesia è la contraddizione interna del feudalesimo – sosteneva Marx – così il proletariato è la contraddizione interna della borghesia. Un mutamento questo radicale che si effettuerà attraverso una lotta di classe. Soltanto la lotta politica potrà avere ragione, secondo il sociologo tedesco, dell’oppressione capitalistica e dovrà inevitabilmente trattarsi di una lotta violenta, gestita da un proletariato autenticamente rivoluzionario e organizzato. Il proletariato è destinato dunque a realizzare una rivoluzione, tale da portare alla soppressione di tutti gli antagonismi sociali e ad una società senza classi. L’avvento del comunismo – questo spettro che si aggira per l’Europa -  viene presentato come l’esito dialetticamente e storicamente motivato dalle contraddizioni interne alla struttura stessa della società capitalista. “Il passaggio dalla società capitalista al comunismo è un passaggio necessario ad una società senza proprietà privata e quindi senza classi, senza divisione del lavoro, senza alienazione e soprattutto senza Stato”. Scriverà Marx ne Il Manifesto del partito comunista. Abolita la proprietà privata il potere politico sarebbe destinato ad estinguersi, perché – e sono ancora riflessioni di Marx - il poter politico non sarebbe altro che la violenza organizzata di una classe per l’oppressione dell’altra. Di conseguenza, se si aboliscono tutte quelle forme di oppressione economica, anche la politica perderebbe la sua ragion d’essere: quando non ci sarà più la proprietà privata e non esisteranno più le classi sociali, cesserà anche un potere politico vero e proprio.
Da quanto detto fin ora si evince che l’analisi sociologica marxiana è assolutamente anche un’analisi economica, e il lavoro è appunto quell’attività diretta a trasformare risorse materiali per produrre beni e servizi necessari alla sussistenza dell’uomo. Si tratta dunque dell’attività economica per eccellenza. Un’attività che, durante la seconda rivoluzione industriale, ha determinato l’alienazione dell’operaio proprio perché si sarebbe ribaltata la relazione dialettica dell’oggetto-soggetto: l’operaio non è più il soggetto che produce l’oggetto, la merce, bensì esso stesso è diventato oggetto mercificato nelle mani del capitalista.

Ma cosa è il lavoro? E soprattutto cosa è diventato il lavoro nei secoli?
Nell’alto Medioevo la prima rivoluzione agricola, agli inizi dell’anno mille, ha modificato nettamente la vita umana, sia da un punto di vista economico che sociale. La rotazione triennale al posto di quella biennale, e l’utilizzo di nuove tecnologie come l’aratro pesante trainato dai buoi che sostituiva quello leggero, o l'erpice di ferro che serviva a frantumare le zolle, così pure il mulino ad acqua e a vento, determinarono un cambiamento radicale anche nella visione del lavoro stesso. Nella cultura pedagogica occidentale, infatti, il lavoro viene considerato formativo per lo sviluppo della personalità a partire dall’alto medioevo, in particolar modo  grazie all’educazione impartita dagli enti ecclesiastici (ordini monastici, certosini e i cistercensi) con il detto ora et labora (prega e lavora) i quali, animati dallo spirito di riforma della vita religiosa e desiderosi di restituire la regola benedettina all’originaria purezza, eleggevano a loro dimora luoghi solitari e selvaggi, nel cuore delle foreste e in territori impervi, che poi faticosamente dissodavano e coltivavano per provvedere al proprio sostentamento.
In questo senso l’attività lavorativa veniva intesa come un momento di fatica e, proprio per questo, anche un momento di purificazione dell’anima.
Decisamente meno catartica e spirituale la visione del lavoro nata dopo le due rivoluzioni industriali.
Da un punto di vista economico, l'elemento che caratterizza la rivoluzione industriale è il salto di qualità nella capacità di produrre beni, cui si assiste in Gran Bretagna a partire dalla seconda metà del Settecento e che ha come protagonista la nascita del motore a vapore (prima rivoluzione industriale); e in tutta Europa nel periodo tra il 1850 ed il 1914 (seconda rivoluzione industriale), caratterizzata da numerosi cambiamenti tecnologici e scoperte scientifiche. La Belle Époque in effetti celebra le esposizioni universali come simboli della civiltà della tecnica: dall’illuminazione elettrica, all’entrata nella produzione in serie di oggetti che diede vita ad una visione scientifica della stessa produzione (fordismo[2] e taylorismo[3]), con lo scopo di aumentare la quantità dei prodotti e diminuire i tempi di produzione.
E in questo quadro storico  che l’analisi sociologica marxiana trae i suoi più critici fondamenti. Nell’’800 si ha, infatti, una maggiore presa di coscienza dei problemi legati alla tipologia del lavoro.
Eppure, oggi possiamo dire che l’attività lavorativa è sicuramente molto più che una fatica alla quale l’uomo non può fare a meno. Lo stesso Marx, nei Manoscritti ecomico-filosofici del ‘44 e nel Capitale (1867) sostiene che l’attività lavorativa è un bisogno primario, in quanto momento fondamentale di creazione e di realizzazione. Ma sarà un altro importante sociologo, Max Weber (1864-1920), ad analizzare ancora più acutamente l’analogia che esiste tra la trasformazione capitalista che dirige la produzione industriale e la trasformazione culturale. Nella sua opera intitolata L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-05) Weber dimostra che esiste un forte legame tra la versione calvinista del successo terreno, inteso come segno di benevolenza  divina, e la mentalità che sta alla base dell’impresa capitalista, dove il profitto viene continuamente reinvestito per produrre un ulteriore profitto, piuttosto che agi materiali. In pratica, secondo il sociologo tedesco, vi è una connessione, neppure tanto latente, tra il lavoro e la visione del mondo. “Il guadagno è considerato come scopo della vita dell'uomo – scriverà Weber - e non più come mezzo per soddisfare i suoi bisogni materiali. Questa inversione del rapporto naturale, che è addirittura priva di senso per il modo di sentire comune, è manifestamente un motivo fondamentale del capitalismo”. Va specificato, tuttavia, che Weber con questa sua poderosa opera e l’analisi che ne consegue, non intende sostenere che un fenomeno economico possa essere causato direttamente da un fenomeno religioso. La sua riflessione è di natura fortemente sostanziale più che causale e mette in relazione due fenomeni omogenei: la mentalità religiosa calvinista e la mentalità capitalista, affermando che la prima è stata una pre-condizione culturale insita nella popolazione europea, che poi ha determinato il formarsi della seconda.  Analisi questa suffragata anche dalle osservazioni più recenti sulla società e su come l’uomo si rapporta con l’attività lavorativa. In Economia e società, pubblicato postumo, Weber individua quattro tipi di agire sociale, secondo lo schema degli ideal-tipo[4]:
1.     atteggiamento razionale in rapporto ad un fine (es. l’agire di un ingegnere);
2.     atteggiamento razionale rispetto ad un valore (es. l’atteggiamento di un religioso);
3.     atteggiamento affettivo (es. comportamento di chi è innamorato);
4.     atteggiamento tradizionale (ossia un agire determinato da particolari abitudini).
L’analisi weberiana è davvero utile per comprendere appieno la tesi secondo cui l’alienazione moderna vede l’individuo sociale come imprigionato all’interno di quelle strettoie che la nuova visione del mondo del lavoro ha creato. In Weber, infatti, è presente la distinzione tra comunità intesa come appartenenza soggettivamente sentita, e società vista come convergenza di interessi; così come il concetto di lotta come elemento tipico della società umana. Anche il concetto di ceto, inteso come l’insieme di individui che condividono un certo status riconosciuto socialmente, non necessita la coincidenza con la posizione economica. Il processo di razionalizzazione della modernità e il conseguente disincanto del mondo, allontano l’uomo da quelle credenze e spiegazioni metafisiche, religiose o magiche creando la scissione tra razionalità e valori, tra cultura e natura, tipica del mondo moderno. Un processo, ad avviso di Weber, irreversibile e inarrestabile. In questo quadro resta irrisolto il problema sociologico classico che vede fortemente antinomici i concetti di libertà individuale e le forme oggettivanti di determinazione sociale. Antinomia questa analizzata dai teorici dello sviluppo organizzativo, i quali affrontano appunto il problema del rapporto fra logica dell’individuo e logica dell’organizzazione. Partendo dal riconoscimento che l’uomo ha una serie di bisogni e di valori che comprendono anche l’affetto, l’appartenenza, la stima, il successo e l’autorealizzazione, molti di questi autori, come ad esempio Douglas Mc Gregor, si sono chiesti in che misura sia possibile costituire delle organizzazioni dotate di una logica coerente con questi valori, e che sia anche in grado di rispettare e valorizzare le motivazioni degli individui.
1.     tendenzialmente l’uomo è portato a rifuggire dal lavoro piuttosto che a ricercarlo;
2.   l’uomo deve essere costretto a lavorare;
3.    le organizzazioni, se vogliono raggiungere i loro obiettivi, devono esercitare un rigido controllo sugli individui;
4.   in generale l’uomo medio non ricerca altro che sicurezza e stabilità;
5.    questo lo porta a scegliere tendenzialmente di essere comandato piuttosto che assumersi delle responsabilità.

1.                    per l’uomo è naturale il lavoro quanto il divertimento e il risposo;
2.       l’uomo ha in sé capacità e possibilità di auto controllarsi in rapporto ai compiti che gli vengono affidati dall’organizzazione;
3.         l’uomo medio è in grado non solo di accettare passivamente le responsabilità, ma anche di assumerle attivamente;
4.       il fatto che nelle organizzazioni esista un sistema di ricompense in funzione del raggiungimento degli obiettivi stimola gli individui a impegnarsi in vista di tale raggiungimento;
5.     in tutti gli uomini esistono doti di creatività e potenzialità intellettive che le organizzazioni solitamente non riconoscono né utilizzano nel modo giusto.


 La differenza tra il modello tayloristico (teoria X) e il modello dei teorici dello sviluppo organizzativo (teoria Y) consisterebbe nella creazione di organizzazioni in grado di incentivare la produttività, attraverso un riconoscimento positivo della logica dei sentimenti.
Lo stesso Sigmund Freud (1856-1939), per il quale l’uomo aveva rinunciato ad un pizzico di felicità per la propria tranquillità, definiva la maturità psicologica come la condizione in cui l’individuo è capace di amare e lavorare.  Perché il lavoro è estremamente importante per la realizzazione psicologica dell’uomo: il lavoro rappresenta uno status sociale, in cui gli uomini vedono il proprio riflesso, non solo come individuo economicamente attivo, ma soprattutto come essere sociale. Accade spesso che quando si perde il proprio lavoro, si entra in una fase di crisi che va ben oltre il fattore economico, perché entrano in gioco diversi elementi di natura squisitamente psicologica, come la perdita della stima che si ha in se stessi, la frantumazione del “me” così come lo aveva inteso Georg Herbert Mead[1] (1863-1931), secondo il quale vi era una distinzione fra "Me" (il sé socializzato e consapevole) , ovvero l'assorbimento degli atteggiamenti degli altri, e l’"Io" (il sé spontaneo, impulsivo e non socializzato), ossia la reazione del soggetto in risposta all'interazione con l'ambiente.  Se non si  dovesse verificare una sintesi tra queste due categorie – sosteneva Mead –  non si potrebbe creare il “Self”, ossia l’identità personale, e quindi il proprio equilibrio.
È ciò che sembra accadere a coloro che perdono il lavoro. I disoccupati indicano spesso nella noia uno dei loro principali problemi e sviluppano un forte senso di indifferenza nei confronti del tempo. È chiaro che il concetto di alienazione ampiamente illustrato da Marx nel Capitale, ai giorni nostri acquista sempre più una valenza diversa rispetto a quella dei primi dell’800, una metamorfosi quasi ambigua e paradossale. Perché se da un lato l’operaio osservato da Marx si è mercificato perché ripone la sua vita nell’oggetto - d’ora in poi la sua vita non appartiene più a lui ma all’oggetto – e quindi ci troviamo di fronte ad un tipo di alienazione strutturale, in cui il prodotto del lavoro dell’operaio si è oggettivato, qualcosa cioè che esiste all’esterno, che vive fuori dell’operaio stesso ed è indipendente da lui, il prodotto diventa dunque una potenza a se stante che aliena l’operaio[2]; nel ventesimo secolo l’uomo è diventato totalmente e  inesorabilmente il suo lavoro. Ecco perché l’alienazione moderna acquista connotati forse ancora più ambigui e fortemente paradossali rispetto a quella raccontata dai sociologi del diciannovesimo secolo.
Secondo alcuni studiosi la società moderna sta attraversando un periodo di transizione verso un nuovo tipo di strutturazione[3], che via via acquista sempre più il carattere di una sovrastruttura dal sapore più economico che ideologico, non più basata prevalentemente sull’industrializzazione ma dall’economia della conoscenza. Nell’economia della conoscenza la crescita della ricchezza è alimentata dalle idee e dall’informazione. La maggior parte della forza lavoro è impegnata non a distribuire beni materiali, piuttosto nella progettazione dei beni immateriali.
Secondo il sociologo Charles Leadbeater al giorno d’oggi si guadagna vendendo aria fritta. Che siano servizi, piuttosto che informazioni di qualunque tipo, o analisi sui settori più disparati, per lo studioso sempre di aria fritta si tratta. Ma qui non si vuole dare una connotazione negativa, ma semplicemente spiegare come sia cambiato l’oggetto della produzione economica. È tuttavia ovvio che è più facile misurare il valore dei beni materiali rispetto a quelli immateriali.
La concezione del lavoro, lungo la storia dell’umanità, è dunque un continuo divenire, tuttavia vi è un punto in comune in tutte le speculazioni che sono state fatte dagli studiosi: il lavoro, attraverso cui gli uomini modificano il mondo materiale per soddisfare i propri bisogni, è essenzialmente un’attività sociale, in cui diversi gruppi entrano in contatto tra loro. Gli individui tendono a riconoscersi nella propria attività lavorativa, a cui poi si collega una lunga e profonda rete di rapporti sociali che definisce la caratteristica di status, potere e prestigio. È chiaro che nelle società semplici la divisione del lavoro è piuttosto limitata, decisamente più articolata invece nelle società più complesse, come la nostra ad esempio.
Abbiamo visto come per Marx il concetto di alienazione assume dei connotati assolutamente negativi, per un altro sociologo invece, il francese Émile Durkheim (1858-1917), la divisione del lavoro rafforzerebbe la solidarietà sociale, determinando il passaggio tra solidarietà meccanica, tipica delle società tradizionali fondata sull’uniformità, alla solidarietà organica, tipica delle società moderne e fondata sulle differenze. In entrambi i pensatori, tuttavia il concetto che fa da motore all’intero mondo del lavoro è la retribuzione. Nessuno vorrebbe lavorare gratis, ma anche è vero che per molte persone il lavoro acquista una valenza superiore alle disquisizioni di natura puramente economica. Perché il lavoro fa sentire utili, socialmente integrati e aiuta la propria autostima. Ecco che le speculazioni di Andrè Gorz (1923-2007) vertono proprio su questo passaggio importante. Secondo il sociologo francese in futuro il lavoro retribuito avrà un ruolo sempre meno importante perché – non ha più senso – sostiene Gorz – supporre che i lavoratori possano impadronirsi delle imprese in cui lavorano (come invece sosteneva Marx), per non parlare poi del potere. Insomma, il problema posto da Gorz è proprio sull’emancipazione che non è più strutturata lungo i binari dell’alienazione marxiana, ma piuttosto verso una consapevolezza che la vita dell’uomo è sempre più circoscritta nelle sue ore lavorative, un’occupazione a tempo pieno che vincola più che svincolare il lavoratore dal lavoro in sé. Secondo Gorz la società sta progredendo verso una tipologia dualistica: da una parte la produzione sarà pensata per massimizzare l’efficienza, dall’altra gli individui si dedicheranno ad una serie di attività non lavorative per il proprio appagamento personale. Una riflessione la sua non isolata. Ralf Dahrendorf (1929-2009) sostiene che nei paesi industriali avanzati la società del lavoro stia terminando, a causa della riduzione del lavoro dipendente e stabile con un conseguente aumento del tempo libero. Peccato che, come recita una citazione attribuita a Benjamin Franklin, il tempo sia denaro.
In primo luogo l’idea di tempo libero presuppone una rigida separazione tra tempi e spazi occupati dal lavoro, e tempi e spazi non soggetti ai vincoli dell’attività lavorativa. Nella società preindustriale questa distinzione non esisteva, in quanto il tempo lavorativo si alternava con quello del riposo. Il concetto di tempo libero è un immagine moderna, nata appunto con le società industriali e che presuppone una regolamentazione dei tempi del lavoro che, agli inizi dell’industrializzazione, erano lasciati all’arbitrio dell’imprenditore. È durante la Seconda Internazionale Socialista del 1889 che si deciderà per la riduzione dell’orario di lavoro a otto ore lavorative giornaliere per il tempo pieno.
In una prospettiva spiccatamente teorica e coniugando marxismo e psicoanalisi, Herbert Marcuse (1898-1979) autore della cosiddetta Scuola di Francoforte, affronta nella sua opera L’uomo a una dimensione (1864) il tema dell’automazione industriale. Secondo Marcuse la società industriale avanzata possiederebbe le tecnologie necessarie per liberare l’uomo dalla schiavitù del lavoro. Se ciò non accade – spiega il sociologo – è perché vi è una maggiore induzione verso nuovi bisogni di consumo, tanto da non avere più la percezione di ciò che è utile e di ciò che è superfluo[4]. Secondo quest’ottica il cambiamento e il progresso tecnologico della società non genera necessariamente un miglioramento, piuttosto una nuova forma di alienazione. Secondo un altro autore della Scuola di Francoforte, Eric Fromm (1900-1980), la nostra società si sta infatti progressivamente allontanando da una condizione in cui il lavoro era semplicemente forzato dalla necessità, per giungere solo ad una situazione in cui la motivazione sociale dominante è la crescita di una macchina produttiva, per cui la produzione in quanto tale è diventato il vero scopo della vita dell’individuo.
Di grande rilievo, in merito alla tematica del rapporto lavoro-alienazione, hanno avuto gli studi fatti negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso. Secondo lo psicologo Matthias Burisch l’uomo moderno sarebbe affetto dalla “sindrome del burnout”, là dove per burnout s’intende una vera e propria sindrome psicologica che colpisce le persone con profili assai diversi, e che si svilupperebbe sottoforma di una crisi profonda nei confronti della propria attività lavorativa. Fra le cause, oltre quelle più spiccatamente legate al singolo individuo, figurano la cultura del lavoro che la società moderna ha costruito, ossia quella del successo professionale a tutti i costi, e dell’eccessiva competizione alla quale il lavoratore è evidentemente sottoposto. Fattori questi che portano gli individui a stress non indifferenti. La soluzione, è inutile dirlo, sarebbe rivedere e correggere il proprio tenore lavorativo anche cambiando professione. Il mercato del lavoro però è in una fase fortemente precaria e di disequilibrio, situazione che lascia davvero poco spazio alla libera scelta. Fermo restando che, essendo il lavoro un status sociale molto radicato nella mentalità dell’uomo moderno, optare per un abbandono lavorativo appare più come un fallimento personale, piuttosto che una scelta di vita atta ad un miglioramento della stessa. 

Riflettendo su quanto detto fino ora si può affermare che l’uomo moderno ha difficoltà a crearsi un proprio status sociale al di fuori della sfera lavorativa e che se prima, nella società del diciannovesimo e del ventesimo secolo, si dovevano creare delle categorie capaci di annullare l’alienazione così come descritta da Marx e dagli studiosi a lui vicini, oggi si dovrebbe trovare una soluzione diversa proprio perché si è verificata un’alienazione diversa. L’uomo, come animale politico (nel senso aristotelico del termine) sembra schiacciato da ciò che lui stesso ha costruito, e l’emancipazione attraverso il lavoro smette di avere senso, in quanto gli individui dovrebbero invece trovare una formula di emancipazione dal lavoro stesso. L’attività lavorativa  non è più intesa come mezzo per il proprio sostentamento, articolata dunque secondo la prospettiva della produzione, ma si è trasformata come mezzo per determinare il proprio status sociale e il proprio ruolo all’interno della società in cui si vive. La visione secondo cui l’uomo potrebbe lavorare solo ed esclusivamente per un proprio piacere personale, così come lo preannunciava Gorz, appare sempre più utopistica e lontano dalla cultura del mercato, sia esso materiale che immateriale. Perché l’uomo moderno, sia pure con una  motivazione che va al di là della sfera squisitamente economica, sembra non poter fare a meno di sentirsi dentro il mondo del lavoro. C’è da chiedersi, tuttavia, se da soggetto in grado di modificare l’ambiente che lo circonda, non sia diventato piuttosto l’oggetto di una cultura sociale che gli attribuisce significato solo se inserito in determinate categorie.
Ma come disse Max Weber: “se gli uomini non tentassero continuamente l’impossibile, il possibile non verrebbe mai raggiunto”.



·      La conoscenza e la ricerca. Moduli per la ricerca socio psicopedagogica e le scienze sociali, di U. Avalli, M. Maranzana, P. Sacchi; edizione Zanichelli, 2006;
·        Corso di sociologia, di A. Bagnasco, M. Barbagli; edizione Il Mulino, 2007;
·        Fondamenti di sociologia, di A. Giddes; edizione Il Mulino, 2001;
·        Manifesto del partito comunista, di Marx-Engel; edizione Giunti-Demetra, 2009;
·        L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, di Max Weber; edizione Bur, 2009;
·        Maw Weber. Un ritratto intellettuale, di Reinhard Bendix, postazione di Guenther Roth, edizione Zanichelli, 1995.



[1] Il centro della riflessione di Mead (1863-1931) stanno le nozioni di “mind”, di “self” e di “society”, che possono essere rese in italiano, rispettivamente, con “spirito”, “autocoscienza” e “società”. Queste tre nozioni danno il titolo al celebre scritto Mind, Self, and Society, nella quale opera l’autore  mette in evidenza la convinzione che si agisca in base al principio per cui a uno stimolo proveniente dall’ambiente si attua una reazione adeguata. Questo significa che per Mead il self e il mind non sono categorie innate, ma determinate dall’ambiente in cui si vive. La società è dunque resa possibile da tale sviluppo e per rendere conto dell’incessante mutamento che coinvolge la società Mead utilizza le categorie di “Me” e di “Io”.  Il soggetto non è soltanto una mera autocoscienza impenetrabile agli influssi esterni: accanto alla dimensione coscienziale dell’“Io” c’è il “Me”, ossia la concezione che gli altri hanno di noi. L’idea di Mead è, a questo proposito, che siamo ciò che gli altri vogliono che siamo: detto altrimenti, introiettiamo le aspettative degli altri e su di esse modelliamo la nostra identità. Solo quando si struttura la sintesi tra “io” e “me” allora può formarsi “self”, ossia l’identità personale. Così inteso il “self” è la sintesi, armonicamente equilibrata, dei diversi “Me”.
[2] Alienazione dalla quale l’uomo può salvarsi solo attraverso la lotta di classe
[3] La concezione materialistica della storia di Marx consiste nel comprendere la storia prendendo le mosse dagli “individui reali”, dalla loro azione, dalle loro condizioni di vita materiali. Il reale non poggia sulle idee ma sui fatti; non il pensiero modifica la società, ma è la sfera economica che modifica il pensiero. Ciò porta a specificare il rapporto tra struttura economica e sovrastruttura ideologica. Con il concetto di sovrastruttura Marx vuole indicare il complesso dei processi spirituali e culturali che costituiscono la civiltà umana, quindi la politica, la morale, la religione, l’arte, ecc. Con il cambiamento della struttura economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura.
[4] Obsolescenza reale e obsolescenza apparente
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