Partendo dalla
riflessione marxista del
conflitto di classe, conflitto determinato da una divisione del lavoro
arbitrariamente imposta dalla logica del capitale, in questa breve dissertazione
si vuole analizzare il mutamento strutturale e strumentale che il rapporto
individuo-lavoro ha subito nel corso dei secoli.
Le società
preindustriali vedevano nell’attività lavorativa una parentesi fondamentale per
la crescita spirituale. Una cultura della fatica in cui l’essere e il dover
essere non potevano che coincidere. Zappare la terra, piuttosto che trascrivere
testi a mano non veniva visto come un momento di negazione alla propria libertà
individuale, ma un impegno necessario già previsto nell’ordine naturale delle
cose. Così pure la divisione in classi sociali.
Le due rivoluzioni
industriali hanno, tuttavia, modificato completamente la struttura della
società che, da società divisa in classi si è trasformata in società di massa.
Una democrazia strutturale che però doveva ancora raggiungere il suo
significato sostanziale: essere tutti uguali formalmente non presupponeva,
infatti, un’uguaglianza reale. Ecco che la riflessione sociologica del
diciannovesimo secolo non può che puntare il dito sulle logiche lavorative che
le due rivoluzioni industriale hanno imposto.
Per Marx la lotta
di classe tra proletari e borghesi, determinata dalla differenza nell’essere
salariati o capitalisti, poteva terminare solo con una rivoluzione che sarebbe
poi sfociata, prima nella dittatura del proletariato e solo poi nel comunismo,
inteso questo come forma alternativa alla coercizione politica. La storia ha
poi posto in evidenza la grande differenza tra comunismo reale e comunismo
ideale, analisi questa che per ovvie ragioni di contenuto non saranno trattate
in questa esposizione. Dissertazione che, invece, vuole riflettere sulla
metamorfosi del concetto di alienazione. Se nei secoli precedenti a questo che
stiamo vivendo si ricercava la propria emancipazione attraverso il lavoro[1], perché la “fatica lavorativa serviva per il
proprio sostentamento ” , oggi le trasformazioni sociali hanno fatto sì che
l’uomo non necessariamente lavori per produrre e per un mantenimento di tipo economico.
Spesso accade che vi sia più una necessità psicologia e sociale che materiale, come
se l’attività lavorativa determinasse l’individuo in sé. Non più dunque l’equazione
essere-dover essere, piuttosto identità personale e status socio-lavorativo.
Alcune teorie
sociologiche sostengono infatti che ci sarà un tempo in cui nessuno più
lavorerà per produrre, ma che l’attività che noi oggi definiamo lavorativa e
quindi di fatica, non sarà altro che l’utilizzo libero di ciò che amiamo fare. Dunque
non più obbligazioni ma piena libertà di occupare il proprio tempo libero.
Tuttavia, anche il concetto di tempo libero, richiede una gerarchizzazione e
una razionalizzazione che vede, da una parte il lavoro propriamente detto, e
dall’altra il riposo così come ogni individuo lo immagina.
Il lavoro dunque
non renderebbe liberi, ma relegherebbe l’individuo in categorie imposte dalla
cultura che la società moderna avrebbe determinato lungo il cammino della
storia dell’uomo.
"La storia di ogni
società è stata finora la storia di lotte di classe. Uomo libero e schiavo,
patrizio e plebeo, barone e servo della gleba, membro di una corporazione e
artigiano, in breve oppressore e oppresso si sono sempre reciprocamente
contrapposti, hanno combattuto una battaglia ininterrotta, aperta o nascosta,
una battaglia che si è ogni volta conclusa con una trasformazione
rivoluzionaria dell'intera società o con il comune tramonto delle classi in
conflitto. Nelle precedenti epoche storiche noi troviamo dovunque una
suddivisione completa della società in diversi ceti e una multiforme
strutturazione delle posizioni sociali. Nell'antica Roma abbiamo patrizi,
cavalieri, plebei, schiavi; nel Medioevo, feudatari, vassalli, membri delle
corporazioni, artigiani, servi della gleba, e ancora, in ciascuna di queste
classi, ulteriori specifiche classificazioni. La moderna società borghese,
sorta dal tramonto della società feudale, non ha superato le contrapposizioni
di classe. Ha solo creato nuove classi al posto delle vecchie, ha prodotto
nuove condizioni dello sfruttamento, nuove forme della lotta fra le classi. La
nostra epoca, l'epoca della borghesia, si caratterizza però per la
semplificazione delle contrapposizioni di classe. L'intera società si divide
sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi che si fronteggiano
direttamente: borghesia e proletariato".
(Marx-Engels, Manifesto del partito comunista - 1848)
Il filosofo, storico, sociologo ed economista tedesco, Karl Marx
(1818-1883), nella la sua forse più importante opera, Manifesto del partito comunista, scritto a quattro mani con l’amico
Engels, sostiene che la storia dell’uomo altro non è che un conflitto di classe
ininterrotto, conflitto che sfocerà in una grande rivoluzione che vedrà il
proletariato come il vero e unico protagonista della storia, in
contrapposizione alla borghesia. Là dove per proletariato si intende la classe
dei moderni salariati che, non avendo mezzi di produzione propri, sono ridotti
a vendere la loro forza-lavoro per vivere, e per borghesia si intende la classe
dei moderni capitalisti, proprietari dei mezzi di produzione. Ciò tuttavia non
significa che Marx ritiene esclusivamente negativa la classe borghese. Anzi.
Pur con tutte le sue contraddizioni sia Marx che Engels ritengono che alla borghesia
debbano essere riconosciuti meriti di grande portata storico-politica, in primo
luogo perché questa classe sociale, che ha visto la sua grande avanzata con la
rivoluzione francese, ha abbattuto le rigide barriere del feudalesimo e ha
permesso uno sviluppo economico universale e razionalizzato. Eppure, il suo
destino è quello di generare una classe avversa (il proletariato) destinata a
soverchiarla. Come la borghesia è la contraddizione interna del feudalesimo –
sosteneva Marx – così il proletariato è la contraddizione interna della
borghesia. Un mutamento questo radicale che si effettuerà attraverso una lotta
di classe. Soltanto la lotta politica potrà avere ragione, secondo il sociologo
tedesco, dell’oppressione capitalistica e dovrà inevitabilmente trattarsi di
una lotta violenta, gestita da un proletariato autenticamente rivoluzionario
e organizzato. Il proletariato è destinato dunque a realizzare una
rivoluzione, tale da portare alla soppressione di tutti gli antagonismi sociali
e ad una società senza classi. L’avvento del comunismo – questo spettro che si
aggira per l’Europa - viene presentato
come l’esito dialetticamente e storicamente motivato dalle contraddizioni
interne alla struttura stessa della società capitalista. “Il passaggio dalla
società capitalista al comunismo è un passaggio necessario ad una società senza
proprietà privata e quindi senza classi, senza divisione del lavoro, senza
alienazione e soprattutto senza Stato”. Scriverà Marx ne Il Manifesto del partito comunista. Abolita
la proprietà privata il potere politico sarebbe destinato ad estinguersi,
perché – e sono ancora riflessioni di Marx - il poter politico non sarebbe
altro che la violenza organizzata di una classe per l’oppressione dell’altra. Di
conseguenza, se si aboliscono tutte quelle forme di oppressione economica,
anche la politica perderebbe la sua ragion d’essere: quando non ci sarà più la
proprietà privata e non esisteranno più le classi sociali, cesserà anche un
potere politico vero e proprio.
Da quanto detto fin ora si evince che l’analisi sociologica marxiana è
assolutamente anche un’analisi economica, e il lavoro è appunto quell’attività
diretta a trasformare risorse materiali per produrre beni e servizi necessari
alla sussistenza dell’uomo. Si tratta dunque dell’attività economica per
eccellenza. Un’attività che, durante la seconda rivoluzione industriale, ha
determinato l’alienazione dell’operaio proprio perché si sarebbe ribaltata la
relazione dialettica dell’oggetto-soggetto: l’operaio non è più il soggetto che
produce l’oggetto, la merce, bensì esso stesso è diventato oggetto mercificato
nelle mani del capitalista.
Ma cosa è il lavoro? E soprattutto cosa è diventato il lavoro nei
secoli?
Nell’alto Medioevo la prima rivoluzione agricola, agli inizi dell’anno
mille, ha modificato nettamente la vita umana, sia da un punto di vista economico
che sociale. La rotazione triennale al posto di quella biennale, e l’utilizzo
di nuove tecnologie come l’aratro pesante trainato dai buoi che sostituiva
quello leggero, o l'erpice di ferro che serviva a frantumare le zolle, così
pure il mulino ad acqua e a vento, determinarono un cambiamento radicale anche
nella visione del lavoro stesso. Nella cultura pedagogica occidentale, infatti,
il lavoro viene considerato formativo per lo sviluppo della personalità a
partire dall’alto medioevo, in particolar modo
grazie all’educazione impartita dagli enti ecclesiastici (ordini
monastici, certosini e i cistercensi) con il detto ora et labora (prega e lavora) i quali, animati dallo spirito di riforma della vita religiosa e
desiderosi di restituire la regola benedettina all’originaria purezza,
eleggevano a loro dimora luoghi solitari e selvaggi, nel cuore delle foreste e
in territori impervi, che poi faticosamente dissodavano e coltivavano per
provvedere al proprio sostentamento.
In questo senso l’attività lavorativa veniva intesa come un momento di
fatica e, proprio per questo, anche un momento di purificazione dell’anima.
Decisamente meno catartica e spirituale la visione del lavoro nata dopo
le due rivoluzioni industriali.
Da un punto di vista economico, l'elemento che caratterizza la rivoluzione
industriale è il salto di qualità nella capacità di produrre beni, cui si assiste
in Gran Bretagna a partire dalla seconda metà del Settecento e che ha come
protagonista la nascita del motore a vapore (prima rivoluzione industriale); e
in tutta Europa nel periodo tra il 1850 ed il 1914 (seconda rivoluzione
industriale), caratterizzata da numerosi cambiamenti tecnologici e scoperte
scientifiche. La Belle
Époque in effetti celebra le esposizioni universali come simboli della civiltà
della tecnica: dall’illuminazione elettrica, all’entrata nella produzione in
serie di oggetti che diede vita ad una visione scientifica della stessa
produzione (fordismo[2]
e taylorismo[3]), con lo
scopo di aumentare la quantità dei prodotti e diminuire i tempi di produzione.
E in questo quadro storico che
l’analisi sociologica marxiana trae i suoi più critici fondamenti. Nell’’800 si
ha, infatti, una maggiore presa di coscienza dei problemi legati alla tipologia
del lavoro.
Eppure, oggi possiamo dire che l’attività lavorativa è sicuramente molto
più che una fatica alla quale l’uomo non può fare a meno. Lo stesso Marx, nei Manoscritti ecomico-filosofici del ‘44 e
nel Capitale (1867) sostiene che
l’attività lavorativa è un bisogno primario, in quanto momento fondamentale di
creazione e di realizzazione. Ma sarà un altro importante sociologo, Max Weber
(1864-1920), ad analizzare ancora più acutamente l’analogia che esiste tra la
trasformazione capitalista che dirige la produzione industriale e la
trasformazione culturale. Nella sua opera intitolata L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-05) Weber
dimostra che esiste un forte legame tra la versione calvinista del successo
terreno, inteso come segno di benevolenza
divina, e la mentalità che sta alla base dell’impresa capitalista, dove
il profitto viene continuamente reinvestito per produrre un ulteriore profitto,
piuttosto che agi materiali. In pratica, secondo il sociologo tedesco, vi è una
connessione, neppure tanto latente, tra il lavoro e la visione del mondo. “Il guadagno è considerato come scopo della
vita dell'uomo – scriverà Weber - e
non più come mezzo per soddisfare i suoi bisogni materiali. Questa inversione
del rapporto naturale, che è addirittura priva di senso per il modo di sentire
comune, è manifestamente un motivo fondamentale del capitalismo”. Va
specificato, tuttavia, che Weber con questa sua poderosa opera e l’analisi che
ne consegue, non intende sostenere che un fenomeno economico possa essere
causato direttamente da un fenomeno religioso. La sua riflessione è di natura
fortemente sostanziale più che causale e mette in relazione due fenomeni
omogenei: la mentalità religiosa calvinista e la mentalità capitalista,
affermando che la prima è stata una pre-condizione culturale insita nella
popolazione europea, che poi ha determinato il formarsi della seconda. Analisi questa suffragata anche dalle
osservazioni più recenti sulla società e su come l’uomo si rapporta con
l’attività lavorativa. In Economia e
società, pubblicato postumo, Weber individua quattro tipi di agire sociale,
secondo lo schema degli ideal-tipo[4]:
1. atteggiamento razionale in rapporto ad un fine (es. l’agire di un
ingegnere);
2. atteggiamento razionale rispetto ad un valore (es. l’atteggiamento di un
religioso);
3. atteggiamento affettivo (es. comportamento di chi è innamorato);
4. atteggiamento tradizionale (ossia un agire determinato da particolari
abitudini).
L’analisi weberiana è davvero utile per comprendere appieno la tesi
secondo cui l’alienazione moderna vede l’individuo sociale come imprigionato
all’interno di quelle strettoie che la nuova visione del mondo del lavoro ha
creato. In Weber, infatti, è presente la distinzione tra comunità intesa come
appartenenza soggettivamente sentita, e società vista come convergenza di
interessi; così come il concetto di lotta come elemento tipico della società
umana. Anche il concetto di ceto, inteso come l’insieme di individui che
condividono un certo status riconosciuto socialmente, non necessita la
coincidenza con la posizione economica. Il processo di razionalizzazione della
modernità e il conseguente disincanto del mondo, allontano l’uomo da quelle
credenze e spiegazioni metafisiche, religiose o magiche creando la scissione
tra razionalità e valori, tra cultura e natura, tipica del mondo moderno. Un
processo, ad avviso di Weber, irreversibile e inarrestabile. In questo quadro
resta irrisolto il problema sociologico classico che vede fortemente antinomici
i concetti di libertà individuale e le forme oggettivanti di determinazione
sociale. Antinomia questa analizzata dai teorici dello sviluppo organizzativo,
i quali affrontano appunto il problema del rapporto fra logica dell’individuo e
logica dell’organizzazione. Partendo dal riconoscimento che l’uomo ha una serie
di bisogni e di valori che comprendono anche l’affetto, l’appartenenza, la
stima, il successo e l’autorealizzazione, molti di questi autori, come ad
esempio Douglas Mc Gregor, si sono chiesti in che misura sia possibile
costituire delle organizzazioni dotate di una logica coerente con questi
valori, e che sia anche in grado di rispettare e valorizzare le motivazioni
degli individui.
1. tendenzialmente l’uomo è portato a rifuggire dal lavoro piuttosto che a
ricercarlo;
2. l’uomo deve essere costretto a lavorare;
3.
le organizzazioni, se vogliono
raggiungere i loro obiettivi, devono esercitare un rigido controllo sugli
individui;
4.
in generale l’uomo medio non
ricerca altro che sicurezza e stabilità;
5.
questo lo porta a scegliere
tendenzialmente di essere comandato piuttosto che assumersi delle
responsabilità.
1. per l’uomo è naturale il lavoro quanto il divertimento e il risposo;
2.
l’uomo ha in sé capacità e
possibilità di auto controllarsi in rapporto ai compiti che gli vengono
affidati dall’organizzazione;
3.
l’uomo medio è in grado non solo
di accettare passivamente le responsabilità, ma anche di assumerle attivamente;
4.
il fatto che nelle
organizzazioni esista un sistema di ricompense in funzione del raggiungimento
degli obiettivi stimola gli individui a impegnarsi in vista di tale
raggiungimento;
5. in tutti gli uomini esistono doti di creatività e potenzialità
intellettive che le organizzazioni solitamente non riconoscono né utilizzano
nel modo giusto.
La differenza tra il modello
tayloristico (teoria X) e il modello dei teorici dello sviluppo organizzativo
(teoria Y) consisterebbe nella creazione di organizzazioni in grado di
incentivare la produttività, attraverso un riconoscimento positivo della logica
dei sentimenti.
Lo stesso Sigmund Freud (1856-1939), per il quale l’uomo aveva
rinunciato ad un pizzico di felicità per la propria tranquillità, definiva la
maturità psicologica come la condizione in cui l’individuo è capace di amare e
lavorare. Perché il lavoro è
estremamente importante per la realizzazione psicologica dell’uomo: il lavoro rappresenta
uno status sociale, in cui gli uomini vedono il proprio riflesso, non solo come
individuo economicamente attivo, ma soprattutto come essere sociale. Accade
spesso che quando si perde il proprio lavoro, si entra in una fase di crisi che
va ben oltre il fattore economico, perché entrano in gioco diversi elementi di
natura squisitamente psicologica, come la perdita della stima che si ha in se
stessi, la frantumazione del “me” così come lo aveva inteso Georg Herbert Mead[1]
(1863-1931), secondo il quale vi era una distinzione fra "Me" (il sé socializzato e consapevole) , ovvero l'assorbimento degli
atteggiamenti degli altri, e l’"Io" (il sé
spontaneo, impulsivo e non socializzato), ossia la reazione del soggetto in
risposta all'interazione con l'ambiente. Se non si
dovesse verificare una sintesi tra queste due categorie – sosteneva Mead
– non si potrebbe creare il “Self”,
ossia l’identità personale, e quindi il proprio equilibrio.
È ciò che sembra accadere a coloro che perdono il lavoro. I disoccupati
indicano spesso nella noia uno dei loro principali problemi e sviluppano un
forte senso di indifferenza nei confronti del tempo. È chiaro che il concetto
di alienazione ampiamente illustrato da Marx nel Capitale, ai giorni nostri acquista sempre più una valenza diversa
rispetto a quella dei primi dell’800, una metamorfosi quasi ambigua e
paradossale. Perché se da un lato l’operaio osservato da Marx si è mercificato
perché ripone la sua vita nell’oggetto - d’ora in poi la sua vita non
appartiene più a lui ma all’oggetto – e quindi ci troviamo di fronte ad un tipo
di alienazione strutturale, in cui il prodotto del lavoro dell’operaio si è
oggettivato, qualcosa cioè che esiste all’esterno, che vive fuori dell’operaio
stesso ed è indipendente da lui, il prodotto diventa dunque una potenza a se
stante che aliena l’operaio[2];
nel ventesimo secolo l’uomo è diventato totalmente e inesorabilmente il suo lavoro. Ecco perché
l’alienazione moderna acquista connotati forse ancora più ambigui e fortemente
paradossali rispetto a quella raccontata dai sociologi del diciannovesimo
secolo.
Secondo alcuni studiosi la società moderna sta attraversando un periodo
di transizione verso un nuovo tipo di strutturazione[3],
che via via acquista sempre più il carattere di una sovrastruttura dal sapore
più economico che ideologico, non più basata prevalentemente
sull’industrializzazione ma dall’economia della conoscenza. Nell’economia della
conoscenza la crescita della ricchezza è alimentata dalle idee e
dall’informazione. La maggior parte della forza lavoro è impegnata non a
distribuire beni materiali, piuttosto nella progettazione dei beni immateriali.
Secondo il sociologo Charles Leadbeater al giorno d’oggi si guadagna
vendendo aria fritta. Che siano servizi, piuttosto che informazioni di
qualunque tipo, o analisi sui settori più disparati, per lo studioso sempre di
aria fritta si tratta. Ma qui non si vuole dare una connotazione negativa, ma
semplicemente spiegare come sia cambiato l’oggetto della produzione economica. È
tuttavia ovvio che è più facile misurare il valore dei beni materiali rispetto
a quelli immateriali.
La concezione del lavoro, lungo la storia dell’umanità, è dunque un
continuo divenire, tuttavia vi è un punto in comune in tutte le speculazioni
che sono state fatte dagli studiosi: il lavoro, attraverso cui gli uomini
modificano il mondo materiale per soddisfare i propri bisogni, è essenzialmente
un’attività sociale, in cui diversi gruppi entrano in contatto tra loro. Gli
individui tendono a riconoscersi nella propria attività lavorativa, a cui poi
si collega una lunga e profonda rete di rapporti sociali che definisce la caratteristica
di status, potere e prestigio. È chiaro che nelle società semplici la divisione
del lavoro è piuttosto limitata, decisamente più articolata invece nelle
società più complesse, come la nostra ad esempio.
Abbiamo visto come per Marx il concetto di alienazione assume dei
connotati assolutamente negativi, per un altro sociologo invece, il francese Émile
Durkheim (1858-1917), la divisione del lavoro rafforzerebbe la solidarietà
sociale, determinando il passaggio tra solidarietà meccanica, tipica delle
società tradizionali fondata sull’uniformità, alla solidarietà organica, tipica
delle società moderne e fondata sulle differenze. In entrambi i pensatori,
tuttavia il concetto che fa da motore all’intero mondo del lavoro è la retribuzione.
Nessuno vorrebbe lavorare gratis, ma anche è vero che per molte persone il
lavoro acquista una valenza superiore alle disquisizioni di natura puramente
economica. Perché il lavoro fa sentire utili, socialmente integrati e aiuta la
propria autostima. Ecco che le speculazioni di Andrè Gorz (1923-2007) vertono proprio su questo
passaggio importante. Secondo il sociologo francese in futuro il lavoro
retribuito avrà un ruolo sempre meno importante perché – non ha più senso –
sostiene Gorz – supporre che i lavoratori possano impadronirsi delle imprese in
cui lavorano (come invece sosteneva Marx), per non parlare poi del potere. Insomma,
il problema posto da Gorz è proprio sull’emancipazione che non è più
strutturata lungo i binari dell’alienazione marxiana, ma piuttosto verso una
consapevolezza che la vita dell’uomo è sempre più circoscritta nelle sue ore
lavorative, un’occupazione a tempo pieno che vincola più che svincolare il
lavoratore dal lavoro in sé. Secondo Gorz la società sta progredendo verso una tipologia
dualistica: da una parte la produzione sarà pensata per massimizzare
l’efficienza, dall’altra gli individui si dedicheranno ad una serie di attività
non lavorative per il proprio appagamento personale. Una riflessione la sua non
isolata. Ralf Dahrendorf (1929-2009) sostiene che nei paesi industriali
avanzati la società del lavoro stia terminando, a causa della riduzione del
lavoro dipendente e stabile con un conseguente aumento del tempo libero. Peccato
che, come recita una citazione attribuita a Benjamin Franklin, il tempo sia
denaro.
In primo luogo l’idea di tempo libero presuppone una rigida separazione
tra tempi e spazi occupati dal lavoro, e tempi e spazi non soggetti ai vincoli
dell’attività lavorativa. Nella società preindustriale questa distinzione non
esisteva, in quanto il tempo lavorativo si alternava con quello del riposo. Il
concetto di tempo libero è un immagine moderna, nata appunto con le società
industriali e che presuppone una regolamentazione dei tempi del lavoro che,
agli inizi dell’industrializzazione, erano lasciati all’arbitrio
dell’imprenditore. È durante la Seconda Internazionale Socialista del 1889 che
si deciderà per la riduzione dell’orario di lavoro a otto ore lavorative
giornaliere per il tempo pieno.
In una prospettiva spiccatamente teorica e coniugando marxismo e
psicoanalisi, Herbert Marcuse (1898-1979) autore della cosiddetta Scuola di
Francoforte, affronta nella sua opera L’uomo
a una dimensione (1864) il tema dell’automazione industriale. Secondo
Marcuse la società industriale avanzata possiederebbe le tecnologie necessarie
per liberare l’uomo dalla schiavitù del lavoro. Se ciò non accade – spiega il
sociologo – è perché vi è una maggiore induzione verso nuovi bisogni di
consumo, tanto da non avere più la percezione di ciò che è utile e di ciò che è
superfluo[4].
Secondo quest’ottica il cambiamento e il progresso tecnologico della società
non genera necessariamente un miglioramento, piuttosto una nuova forma di
alienazione. Secondo un altro autore della Scuola di Francoforte, Eric Fromm
(1900-1980), la nostra società si sta infatti progressivamente allontanando da
una condizione in cui il lavoro era semplicemente forzato dalla necessità, per
giungere solo ad una situazione in cui la motivazione sociale dominante è la crescita
di una macchina produttiva, per cui la produzione in quanto tale è diventato il
vero scopo della vita dell’individuo.
Di grande rilievo, in merito alla tematica del rapporto
lavoro-alienazione, hanno avuto gli studi fatti negli anni ’80 e ’90 del secolo
scorso. Secondo lo psicologo Matthias Burisch l’uomo moderno sarebbe affetto
dalla “sindrome del burnout”, là dove per burnout s’intende una vera e propria
sindrome psicologica che colpisce le persone con profili assai diversi, e che
si svilupperebbe sottoforma di una crisi profonda nei confronti della propria
attività lavorativa. Fra le cause, oltre quelle più spiccatamente legate al
singolo individuo, figurano la cultura del lavoro che la società moderna ha
costruito, ossia quella del successo professionale a tutti i costi, e
dell’eccessiva competizione alla quale il lavoratore è evidentemente sottoposto.
Fattori questi che portano gli individui a stress non indifferenti. La
soluzione, è inutile dirlo, sarebbe rivedere e correggere il proprio tenore
lavorativo anche cambiando professione. Il mercato del lavoro però è in una
fase fortemente precaria e di disequilibrio, situazione che lascia davvero poco
spazio alla libera scelta. Fermo restando che, essendo il lavoro un status
sociale molto radicato nella mentalità dell’uomo moderno, optare per un
abbandono lavorativo appare più come un fallimento personale, piuttosto che una
scelta di vita atta ad un miglioramento della stessa.
Riflettendo su quanto detto fino ora si può affermare che l’uomo moderno
ha difficoltà a crearsi un proprio status sociale al di fuori della sfera
lavorativa e che se prima, nella società del diciannovesimo e del ventesimo
secolo, si dovevano creare delle categorie capaci di annullare l’alienazione
così come descritta da Marx e dagli studiosi a lui vicini, oggi si dovrebbe
trovare una soluzione diversa proprio perché si è verificata un’alienazione
diversa. L’uomo, come animale politico (nel senso aristotelico del termine)
sembra schiacciato da ciò che lui stesso ha costruito, e l’emancipazione
attraverso il lavoro smette di avere senso, in quanto gli individui dovrebbero
invece trovare una formula di emancipazione dal lavoro stesso. L’attività
lavorativa non è più intesa come mezzo
per il proprio sostentamento, articolata dunque secondo la prospettiva della
produzione, ma si è trasformata come mezzo per determinare il proprio status
sociale e il proprio ruolo all’interno della società in cui si vive. La visione
secondo cui l’uomo potrebbe lavorare solo ed esclusivamente per un proprio
piacere personale, così come lo preannunciava Gorz, appare sempre più
utopistica e lontano dalla cultura del mercato, sia esso materiale che
immateriale. Perché l’uomo moderno, sia pure con una motivazione che va al di là della sfera squisitamente
economica, sembra non poter fare a meno di sentirsi dentro il mondo del lavoro.
C’è da chiedersi, tuttavia, se da soggetto in grado di modificare l’ambiente
che lo circonda, non sia diventato piuttosto l’oggetto di una cultura sociale
che gli attribuisce significato solo se inserito in determinate categorie.
Ma come disse Max
Weber: “se gli uomini non tentassero continuamente l’impossibile, il possibile
non verrebbe mai raggiunto”.
· La conoscenza e la
ricerca. Moduli per la ricerca socio psicopedagogica e le scienze sociali, di U. Avalli, M. Maranzana, P. Sacchi;
edizione Zanichelli, 2006;
·
Corso di
sociologia, di A. Bagnasco, M. Barbagli; edizione Il Mulino, 2007;
·
Fondamenti di
sociologia, di A. Giddes; edizione Il Mulino, 2001;
·
Manifesto del
partito comunista, di Marx-Engel; edizione Giunti-Demetra, 2009;
·
L’etica
protestante e lo spirito del capitalismo, di Max Weber; edizione Bur, 2009;
·
Maw Weber. Un
ritratto intellettuale, di Reinhard Bendix, postazione di Guenther Roth,
edizione Zanichelli, 1995.
[1] Il centro della
riflessione di Mead (1863-1931) stanno le nozioni di “mind”, di “self” e di
“society”, che possono essere rese in italiano, rispettivamente, con “spirito”,
“autocoscienza” e “società”. Queste tre nozioni danno il titolo al celebre
scritto Mind, Self, and Society,
nella quale opera l’autore mette in
evidenza la convinzione che si agisca in base al principio per cui a uno
stimolo proveniente dall’ambiente si attua una reazione adeguata. Questo
significa che per Mead il self e il mind non sono categorie innate, ma
determinate dall’ambiente in cui si vive. La società è dunque resa possibile da
tale sviluppo e per rendere conto dell’incessante mutamento che coinvolge la
società Mead utilizza le categorie di “Me” e di “Io”. Il soggetto non è soltanto una mera
autocoscienza impenetrabile agli influssi esterni: accanto alla dimensione
coscienziale dell’“Io” c’è il “Me”, ossia la concezione che gli altri hanno di
noi. L’idea di Mead è, a questo proposito, che siamo ciò che gli altri vogliono
che siamo: detto
altrimenti, introiettiamo le aspettative degli altri e su di esse modelliamo la
nostra identità. Solo quando si struttura la sintesi tra “io” e “me” allora può
formarsi “self”, ossia l’identità personale. Così inteso il “self” è la
sintesi, armonicamente equilibrata, dei diversi “Me”.
[2] Alienazione dalla quale l’uomo può salvarsi solo attraverso la lotta di
classe
[3] La
concezione materialistica della storia di Marx consiste nel comprendere la
storia prendendo le mosse dagli “individui reali”, dalla loro azione, dalle
loro condizioni di vita materiali. Il reale non poggia sulle idee ma sui fatti;
non il pensiero modifica la società, ma è la sfera economica che modifica il
pensiero. Ciò porta a specificare il rapporto tra struttura economica e
sovrastruttura ideologica. Con il concetto di sovrastruttura Marx vuole
indicare il complesso dei processi spirituali e culturali che costituiscono la
civiltà umana, quindi la politica, la morale, la religione, l’arte, ecc. Con il
cambiamento della struttura economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta
la gigantesca sovrastruttura.
[4]
Obsolescenza reale e obsolescenza apparente
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