lunedì 21 ottobre 2013

Masturbazioni sociali...


Cosa rende una donna una puttana? Aver avuto molti uomini? E come si quantifica questo molti, e soprattutto chi lo decide?

Sappiamo perfettamente che il metro che le stesse donne utilizzano per valutare il grado di moralità femminile è quello che gli uomini hanno inventato e tarato. Quindi se Mick Jagger può vantare più di quattromila amanti ed essere ritenuto – è la stessa ex moglie, Jerry Hall, a dichiararlo – solo un malato di sesso, una specie di cleptomane della figa, una donna meglio, che le possa andare, è di essere ritenuta ninfomane, altrimenti l'ovvietà di essere tacciata come puttana. Ma si badi: la differenza non è solo semantica ma estremamente sostanziale. A colui che è dipendente dal sesso gli si consiglia di recarsi presso un terapeuta, un dottore che possa aiutarlo in questo piccolo problema, la ninfomania invece è oggi un termine che nel linguaggio comune ha assunto un'accezione generica e dispregiativa per definire le donne sessualmente libere e intraprendenti. Se dovessimo dirla tutta “il furore uterino”, come aveva definito nel 1771 l'eccessivo appetito sessuale femminile il medico francese J. D. T. de Bienville, nel 1985è stato poi catalogato come satiriasi, ossia come forma di ipersessualità alla stessa stregua di quella riscontrata nei soggetti maschili. Fermo restando che non credo né alla satiriasi maschile né alla ninfomania femminile (ma io non sono una psicologa), preferisco rispondere ai dubbi che queste “patologie” presentano in un campo a me più congeniale: la cultura egemone nelle società.

Nel saggio La volontà di sapere Foucault sostiene che: «L'essenziale è la molteplicazione dei discorsi sul sesso, nel campo dell'esercizio del potere: incitazione istituzionale a parlarne, e a parlarne sempre di più; ostinazione delle istanze del potere a sentirne parlare e a farlo parlare nella forma dell'articolazione esplicita e dei particolari indefinitamente accumulati». Per dirla come Marcuse la vita dell’individuo si ridurrebbe al bisogno atavico di produrre e consumare, senza possibilità di resistenza. Nel saggio L'uomo a una dimensione Marcuse denuncia il carattere fondamentalmente repressivo della società industriale avanzata, la quale appiattisce l’uomo alla dimensione di consumatore euforico e ottuso, la cui libertà è solo la possibilità di scegliere tra molti prodotti diversi. È qui che trova spazio la critica che il sociologo tedesco muoveva a Freud: sostanzialmente di aver sostenuto che la repressione fosse un fenomeno storico quando, per Marcuse, la repressione si sarebbe attuata soprattutto nelle società moderne, dove il principio del piacere è stato notevolmente svalutato nel principio della realtà. In questo senso, per lo psicologo austriaco, la lotta primordiale per l’esistenza è eterna, e eterno è dunque l’antagonismo tra principio del piacere e il principio della realtà. In questa lotta perenne la memoria non può che avere un posto centrale non solo come forma psicoterapeutica, ma anche come funzione di progressione storica. «La regressione assume una funzione progressiva. Il passato riscoperto offre norme critiche che sono represse dal presente» scriveva Marcuse. 

In poche parole le società moderne hanno deliberatamente addomesticato il principio del piacere, perché questo mal si confaceva con la politica di una società consumistica e atta al lavoro. «(il piacere, ndr) è incompatibile con le esigenze del dominio organizzato, con una società che tende a isolare le persone, a creare distanza tra l’una e l’altra, e a impedire i rapporti spontanei e le espressioni quasi animali, “naturali” di questi rapporti». Il principio della realtà specifico che ha governato le origini e la crescita della civiltà occidentale è il principio di prestazione sotto il cui dominio la società si stratifica secondo le prestazioni economiche (in regime di concorrenza) dei suoi membri. In sostanza, sotto «la legge del principio di prestazione, corpo e anima vengono ridotti a strumenti di lavoro alienato; come tali possono funzionare soltanto se rinunciano alla libertà di quel soggetto-oggetto libidico che originalmente l'organismo umano è e desidera essere. L’individuo non sa più ciò che avviene realmente: la prepotenza della macchina dell’educazione e dei divertimenti lo fonde con tutti gli altri in uno stato di anestesia nel quale si tende ad escludere ogni idea sospetta. E poiché la conoscenza dell’intera verità porta difficilmente alla felicità, questa anestesia generale rende l'individuo felice». 

Ma solo in apparenza. 

La filosofia della differenza, nata soprattutto con le idee femministe, accusano la società di essere fallogocentrica. Il termine è stato coniato da una psicoanalista lacaniana, Luce Irigaray, la quale intende rilevare come la centralità del logos, della razionalità discorsiva nella tradizione culturale occidentale è in realtà marcata e originata dal fallocentrismo originario della civiltà che questa cultura esprime. Insomma, della cultura egemone, ossia di quella maschile. La Irigaray mostra come nella società la differenza di genere sia stata ignorata e neutralizzata, interpretando la femminilità e la specificità che essa rappresenta come un'immagine riflessa - appunto, specchiata, da qui il titolo del suo saggio Speculum - nell'unica figura di identità concepita, che è  basata appunto sul mondo maschile. In altre parole le donne, al pari degli uomini, non fanno altro che osservare, analizzare, criticare, la propria identità di genere con gli strumenti che gli uomini hanno dato loro: attraverso lo specchio del maschio. « Il femminismo è l'operazione mediante la quale la donna vuole assomigliare (..) al filosofo dogmatico, rivendicandone per sé la verità. Il femminismo vuole la castrazione - anche della donna. Perde lo stile, perde stile». Scriverà Derrida nel saggio Sproni. Per Derrida è proprio l'ignoranza dell'alterità in quanto tale ad aver precluso ai filosofi l'accesso alla  verità, come una sorta di effetto di castrazione, a causa del quale proprio la pretesa di ridurre la verità a oggetto presente, la tentazione di esaurirla in una qualsivoglia definizione, spinge inesorabilmente la verità stessa a una sorta di rimozione.
La rimozione di se stesse.

Allora cosa rende una donna una puttana? Solo lo sguardo che vede solo ciò che vuole vedere. E quello sguardo è un riflesso che la cultura egemone ha inoculato negli individui. Non ha importanza se chi guarda è un uomo o una donna: ciò che conta è che la morale comune, sempre quella doppia morale che non mi stancherò mai di denunciare, sostiene che esistono delle differenze di comportamento e quindi di valutazione.
Nel latino antico puta significava ragazza, solo successivamente si è trasformato nell'accezione dispregiativo di prostituta. Chiediamoci allora come è stato possibile un tale mutamento semantico. E soprattutto chiediamoci cosa possiamo fare per non dimenticare che le parole non sono come foglie che il vento porta via, semmai dei concetti che restano negli anni, nei secoli. Le donne devono imparare ad amarsi, e per farlo devono affrancarsi dalla mentalità maschilista imperante e valutare le situazioni non come lo fanno gli uomini ma come lo farebbe una donna libera di mostrare la sua femminilità, senza paura di essere tacciata come una puttana.
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