sabato 20 ottobre 2012

L'amore come collante sociale l'eros come controllo sociale


Cos'è l'amore? La domanda potrebbe sembrare retorica, o quanto meno la risposta potrebbe apparire scontata. In effetti, tutti sembrano avere una risposta, più o meno plausibile su cosa sia l'amore.
«Volontaria follia, piacevol male,
stanco riposo, utilità nocente,
disperato sperar, morir vitale,
temerario dolor, riso dolente;
un vetro forte, una adamente frale,
un'arsura gelata, un gelo ardente,
di discordie concordi abisso eterno,
paradiso infernal, celeste inferno!»
Giambattista Marino, nel poema Adone, descrive l'amore come un sentimento contrastato e contraddittorio, dove gioie e dolori si avvicendano costantemente nell'innamorato che, in preda a questo sentimento inarticolato, non può che soccombere. E nel suo soccombere vive.
Sul tema d'amore vi è un'infinità di letteratura, perché tutti hanno amato e tutti prima o poi ameranno. E questo farebbe di ognuno di noi degli esperti in materia. In realtà, se l'uomo avesse dato la definizione esatta su cosa sia l'amore, l'argomento sarebbe già totalmente esaurito e parlarne ancora sarebbe quanto meno inutile. Tuttavia, come scrisse Ninon de Lenclose nella Lettera al marchese di Sevigné: «L'amore è la commedia in cui gli atti sono più corti e gli intermezzi più lunghi». Questo significa che i sospiri d'amore saranno sempre più pieni delle parole e i non detti più ricchi di patos dei dialoghi. E questo vuol dire che, nonostante i fiumi di poesie e di saggi, non si riuscirà mai a dare un senso a questo sentimento che regge l'azione dell'uomo. Sia in un senso positivo che un senso negativo. Tuttavia, mi sia concessa questa digressione assolutamente personale, l'impossibilità di dare una definizione cogente e perdurante  non può che essere un bene, perché in una società permeata da un neopositivo e da un tecnicismo esasperato, non resta che un unico mistero: l'amore.

Ma l'amore è davvero un sentimento? O piuttosto un composto chimico?
Negli ultimi anni le neuroscienze hanno tentato di rispondere in modo totalmente scientifico alla domanda che ci siamo posti all'inizio di questa introduzione. In un  articolo apparso sul Corriere della sera nel 2002 si citava un saggio della dottoressa Donatella Marazziti intitolato La natura dell'amore, edito da Rizzoli, in cui si sosteneva che l'amore altro non è che una questione chimica. La psichiatra sarebbe giunta a tale conclusione attraverso un'indagine sul campo, analizzando i cosiddetti casi di cecità affettiva. La Marazziti, nel suo saggio, ipotizza una rete di sottotracce che, passando per l'amigdala e i lobi frontali, ossitocina e serotonina, ippocampo e corteccia, finiscono per delineare il “ritratto” biologico, l' interfaccia corporea dell'amore.  Non solo. La psichiatra annovera tra le patologie dell'amore l'incapacità o la paura di innamorarsi che, evidentemente non sono causate solo da un vissuto infantile disastroso o da una traumatica delusione, ossia da quell'interfaccia emotiva e quindi psicoanalitica,  ma anche da un'amigdala mal funzionante o su una scarsa fornitura di dopamina. Il professor Gianluigi Gessa dell'Università di Cagliari, noto ricercatore, ha battezzato questa sostanza chimica “la benzina del desiderio” perché sarebbe proprio la dopamina a far scoccare la scintilla dell'innamoramento. A prova di quanto detto vi sarebbero gli studi eseguiti a  persone con lesioni al nucleo cerebrale dell'amigdala[1], i quali presentavano “cecità affettiva”, una sorta di atarassia che preclude al malato un'incapacità emozionale: caso estremo, un paziente che restò impassibile alla notizia della morte improvvisa di entrambi i genitori. Chi soffre di depressione lamenta spesso la perduta capacità di provare sentimenti e, in questi malati, alterato e carente è soprattutto il sistema della serotonina, la sostanza o neurotrasmettitore chimico che più influenza l'amigdala. Ripristinata con gli psicofarmaci la corretta biochimica cerebrale fa sparire la depressione e fa ricomparire la capacità d'amare. Le prove sono ovviamente tutte indirette perché medici e scienziati scoprono i meccanismi interni del corpo, e quindi possono ipotizzare le strutture cosiddette normali, attraverso le malattie, ossia attraverso i mal funzionamenti della macchina umana. Quanto all'innamoramento che può scatenare disturbi ossessivo-compulsivo, depressivo e altri ancora, la spiegazione, già ipotizzata peraltro da Michael Liebowitz nel saggio “La chimica dell'amore” (1983), sarebbe spiegata attraverso la liberazione, da parte del cervello, di sostanze simili all'anfetamina. Esplosione che, in un soggetto predisposto a vulnerabilità più o meno latenti, o se capitano in periodi di forte stress, potrebbero causare disturbi.  La Marazziti è infatti partita da questa analisi: «Da innamorati, siamo invasi dal pensiero ossessivo dell'altro, allora mi sono chiesta se a livello biochimico si riscontrino somiglianze con quanti soffrono di disturbo ossessivo. Ho analizzato un certo numero di volontari appena innamoratisi e un ugual numero di malati, e ho riscontrato nei due gruppi una analoga riduzione del sistema serotoninergico». Insomma, dopo quest'analisi scientifica di poetico sull'amore forse non resta molto. Eppure, le teorie delle neuroscienze restano estremamente affascinanti anche da un punto di vista più spiccatamente sociologico perché, seguendo quest'ottica, aumenterebbero le variabili dipendenti, ossia quelle che possono essere osservabili da campione, nell'interazione tra i diversi individui. Interazione che, per dirla come Durkheim, determinano i fatti sociali.
Secondo il sociologo Francesco Alberoni in Ti amo sostiene che ci si innamora quando si è pronti a mutare, a lasciare un'esperienza già fatta per abbracciare invece quello slancio vitale che porterebbe poi ad una nuova esplorazione. Insomma per cambiare vita. Ecco perché ci sono periodi in cui innamorarsi è difficile: sono appunto quei momenti in cui, per dirla come la Marazziti, la nostra amigdala non funzionerebbe come dovrebbe.
Alberoni, però, alle analisi neuroscientifiche preferisce quelle più affini alla psicoanalisi, seppur con notevoli differenze[2], e spiega che gli individui si legano a coloro che:
  1. che danno piacere. Questo è un tipo di attaccamento fragile perché s'interromperebbe quando il piacere cessa;
  2. che sfuggono. Si tratta del meccanismo della perdita: in pratica ci si lega alle persone che sfuggono o che ci vengono portate via;
  3.  che piacciono agli altri. È il meccanismo dell'indicazione: si tende a desiderare ciò che il gruppo indica come attraente e dotato di valore;
  4. innamoramento vero e proprio, ossia il meccanismo dello stato nascente. In questa fase il sociologo interpreta il desiderio di cambiare e di abbandono con una forma di rinascita attraverso la fusione con l'altro.
L'innamoramento per Alberoni è un'esperienza straordinaria, un risveglio e non una regressione o una nevrosi, piuttosto una sorta di big ben emozionale. 
«Il modo corretto di analizzarlo (l'individuo innamorato, ndr) non è quello della psicologia individuale, ma della sociologia. Anzi, in modo particolare, della sociologia dei movimenti collettivi»[3]. E secondo il sociologo italiano nessuna collettività può nascere se gli individui non rinascono a loro volta[4].
Ma secondo Freud la storia dell'uomo è la storia della sua repressione. In Al di là del principio e del piacere (1920) il padre della psicoanalisi  formula la teoria delle pulsioni basata sul conflitto tra pulsioni di vita e pulsioni di morte: eros, inteso come istinti di vita, e thanatos, interpretato come istinto di  morte. Il primo si esprimerebbe nell'amore, nella creatività e nella costruttività; il secondo nell'odio e nella distruzione.
Nel saggio intitolato Il disagio della civiltà umana Freud si porrà il problema del destino della specie umana sostenendo che gli uomini, estendendo il loro potere sulle forze naturali e  «giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all'ultimo uomo. L'Eros eterno, farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario altrettanto immortale. Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l'esito?»  Ecco perché per Freud l'uomo rinuncia a molta sua felicità per rendere possibile una vita associata, la civiltà, non autodistruttiva. In pratica l'umanità sacrifica il Principio del piacere  in nome del Principio della realtà, reprimendo in questo modo i propri istinti, le proprie pulsioni e, in sostituzione di questi ultimi, sublimerebbe attraverso tutte quelle attività che sono comunemente considerate frutto della civiltà (arte, cultura, lavoro, ecc.). La società impone, quindi, una modifica dell'essenza degli istinti, dirottandoli dalla sfera sessuale a quella del lavoro. Ed è qui che Herbert Marcuse, nel saggio Eros e civiltà,  pone la sua obiezione in questi termini: «il processo repressivo descritto da Freud è un fatto intrinseco alla natura di ogni società, o si tratta di un fenomeno transitorio in quanto frutto di un'organizzazione irrazionale delle forme di convivenza tra gli uomini?» La risposta che Marcuse fornisce a questa domanda è in aperto contrasto con la tesi di Freud: «la scarsità di beni per cui sono necessari meccanismi quali la divisione del lavoro e il differimento dei bisogni (in una parola, la repressione) è frutto di una organizzazione irrazionale della società, nella quale i beni sono distribuiti in misura iniqua. Freud ha scambiato per caratteristica generale un assetto transitorio che configura un dominio attuato attraverso forme di violenza in un primo momento e, successivamente, con l'amministrazione totale della società».  Il dualismo degli istinti però, secondo Marcuse, è solo apparente. Se entrambi infatti hanno una natura conservatrice comune e gravitano entrambi verso il Nirvana, ne consegue che «l'istinto di morte è distruttività non fine a se stessa, ma presente solo per liberare da una tensione. La discesa verso la morte è una fuga inconscia dal dolore e dal bisogno. E' un'espressione dell'eterna lotta contro la sofferenza e la repressione». Uno stravolgimento al pensiero freudiano, ma che serve a Marcuse per trovare il modo di fondare l'utopia di una radicale trasformazione dell'uomo e del mondo su di una base psicobiologica. Solo questa base infatti può dare ad essa un carattere di necessità. La teoria di Freud è suggestiva perché comporta l'attribuzione alla natura umana di istinti di vita la cui realizzazione piena può portare alla felicità. Essa però, secondo Marcuse, va depurata dell'antitesi tra Eros e Thanatos. Quest'ultimo infatti, si pone come ostacolo permanente sulla via di un'utopia che associa alla felicità individuale la felicità di tutti. Riconducendolo ad una protesta contro la sofferenza e la repressione, l'istinto di morte viene sdrammatizzato e negato. La realizzazione di una vita all'insegna dell'Eros, di una vita dunque liberata dalla repressione e aperta alla felicità, nella misura in cui realizza quella protesta, la azzera. L'utopia della felicità ha dunque, secondo Marcuse, un fondamento psicobiologico nella rivendicazione intrinseca all'inconscio di una vita incentrata sul principio del piacere. Il conflitto tra il principio del piacere e il principio di realtà, che Freud assume come fondamento del passaggio dallo stato di natura a quello di cultura, e che comporta inesorabilmente la frustrazione del desiderio illimitato, è assunto da Marcuse come un conflitto non naturale bensì storico: «un'organizzazione repressiva degli istinti si trova alla base di tutte le forme storiche del principio della realtà nella società civile».
La critica centrale che Marcuse muove al padre della psicoanalisi è quella di aver identificato il principio della realtà con una particolare forma storica e di repressione, prevalente nella società borghese. La repressione è per filosofo della Scuola di Francoforte connessa alla sostituzione del principio del piacere col principio di realtà, ma  sottolinea la presenza di un altro livello attraverso il quale la società opprime l'essere umano, e cioè il cosiddetto  principio di prestazione. Là dove per prestazione si intende ciò che “si deve fare” a causa del proprio ruolo nella società, quindi la repressione attuata attraverso questo principio è strettamente legata alla stratificazione sociale e alla divisione del lavoro. In altre parole la prestazione è ciò che l'individuo deve fornire alla società, ed è ciò che la società si aspetta dall'individuo. Questa ulteriore repressione non avviene solamente attraverso la funzione che la persona svolge, ma è veicolata anche dalla famiglia patriarcale e dalla direzione univoca imposta alla sessualità, ovvero la genitalità, intesa come processo di procreazione piuttosto che di piacere fine a se stesso.
«Il principio della realtà, cioè la repressione, si configura anzitutto come obbligo di produrre, di lavorare: però questo lavoro non è repressivo in quanto tale, ma in quanto lavoro alienato»[5]. È evidente in questo passaggio le forti influenze marxiane sul concetto di alienazione, perché l'alienazione formulata da Marx è appunto l'impossibilità di essere liberi, di poter prendere delle decisioni sul proprio futuro, è insomma una forma di repressione che il capitalista impone all'operaio.
In questa opera Marcuse, di fatto, ha rovesciato le teorie freudiane  affermando, il contrario di quanto lo stesso Freud aveva teorizzato in un momento forse più filosofico che psicoterapeutico, che è possibile una società non repressiva. Il sociologo tedesco era d'accordo con Freud nello scorgere nella repressione il prezzo da pagare alla civilizzazione ma, a differenza dello psicologo austriaco, affermava che non è la civiltà in quanto civiltà a risultare repressiva, a richiedere una costante repressione istintuale, ma quel tipo particolare di civiltà impostasi in Europa e in America: la civiltà autoritaria e borghese. In sostanza, diceva Marcuse, questa società non si è limitata a richiedere il minimo della repressione istintuale richiesto dalla convivenza civile, ma ha preteso un surplus repressivo per motivi che hanno nulla a che vedere con la natura dell'uomo e la convivenza civile stessa, ma sono tutti riportabili al sistema sociale, politico ed economico, oltre che a convinzioni ideologiche[6]. La repressione è l'unico modo di garantire l'efficienza, quel principio di prestazione che è alla base dell'efficientismo capitalistico. La genitalizzazione monogamica, la famiglia, sono istanze funzionali alla produzione e alla riproduzione, abiti etici imposti dal regime alla gente. In questa chiave, afferma Marcuse:« ... il fine della vita, anziché essere quello di godere e far godere il nostro stare al mondo, a titolo di liberi soggetti-oggetti libidici, è storicamente divenuto il lavoro e la fatica, che gli individui hanno finito per accettare come qualcosa di "naturale", o come la "giusta" punizione per qualche colpa commessa, "introiettando" in tal modo la repressione, secondo il principio della cosiddetta "autorepressione dell'individuo represso"». Tuttavia – sostiene Marcuse - la civiltà della prestazione non è riuscita a far tacere completamente l'impulso primordiale verso il piacere, la cui memoria è conservata nell'inconscio e nelle sue fantasie: «La fantasia ha una funzione d'importanza decisiva nella struttura psichica totale: essa collega gli strati più profondi dell'inconscio con i prodotti più alti della coscienza (arte), il sogno con la realtà; conserva gli archetipi della specie, le idee eterne ma represse della memoria collettiva e individuale, le immagini represse e ostracizzate della libertà». Il tutto, al di là del fatto che nella pratica quotidiana secondo Marcuse, è già operante un maggior uso della sensibilità, una tendenza a vivere la vita come gioco, una spinta affinché le forze dell'amore, dell'Eros, si impongano sull'odio, su Thanatos, le forze negative e gli istinti di morte, esiste nel sistema stesso la possibilità di una riduzione dei tempi di lavoro, liberando tempo disponibile per una vita più gradevole. In tale contesto, è evidente che l'atmosfera ottimistica di Eros e civiltà[7] è nettamente in contrasto con le visioni pessimistiche di Horkheimer e Adorno, per i quali la perdita di autenticità non è certamente riducibile a tempo, denaro, repressione della libido, ma a questioni più profonde e radicali. D'altro canto lo stesso Freud aveva definito la felicità come “soddisfazione ritardata di un desiderio preistorico”, e questa sarebbe la ragione per cui la ricchezza porterebbe poca felicità, proprio perché il denaro non è un oggetto di desiderio durante l'infanzia. In effetti, dopo Eros e civiltà, anche Marcuse avrà un ripensamento e, soprattutto nel L'uomo ad una dimensione, arriverà a denunciare come falsa la liberazione sessuale, contrapponendovi una liberazione dell'amore ancora tutta da venire e persino da capire.
La tesi del saggio di Marcuse è che l'uomo moderno si è dessessualizzato, ha in pratica posto la sublimazione dei propri istinti sessuali sul rapporto di produzione, un rapporto che, marxianamente inteso, è alienato e che porta alla repressione istintuale e della libido. «Quando, nelle società più o meno opulente, la produttività ha raggiunto un livello al quale le masse partecipano ai suoi vantaggi, per cui l'opposizione è tenuta, efficacemente e democraticamente, sotto controllo, allora anche il conflitto tra padrone e schiavo è efficacemente tenuto sotto controllo»[8]. Secondo Marcuse nella società moderna il controllo della sessualità fomenta la repressione umana. L'umanità, tuttavia, non s'accorge di essere repressa perché ha annullato il principio del piacere all'interno del principio di prestazione. L'ottimismo in Eros e civiltà sta nel fatto che l'uomo conserva tracce dei primordiali istinti attraverso la fantasia e che attraverso «la liberazione delle tendenze istintuali alla pace e alla serenità, all'appagamento dell'Eros “asociale” ed autonomo, presuppone la liberazione dall'opulenza repressiva: l'inversione della direzione di marcia del progresso»[9].
Con Marcuse il concetto d'amore presupponeva una non differenza sostanziale con il concetto di eros. Luc Boltanski in Stati di pace. Una sociologia dell'amore rivendica invece una diversità funzionale tra i due concetti. In particolare Boltanski sostiene la possibilità di creare una società in cui l'agape, ripulita dalle speculazioni spiccatamente teologiche, possa agire come forza propulsiva nell'interazione degli individui.
Il programma teorico del sociologo francese è il tentativo di realizzare una sociologia della morale, intesa questa come riflessione in cui è possibile analizzare e studiare l'azione degli individui all'interno delle società, le ragioni che spingono gli stessi al loro agire e le esigenze morali che questi si danno o vorrebbero darsi. In Stati di pace Boltanski presenta dunque la sua analisi della morale entro un percorso di studi complesso e articolato tratto dalla sua opera più completa L’amour et la justice comme compétences, di cui il saggio che prenderemo in considerazione ne rappresenta solo un capitolo. L'autore si avvicina all'analisi della morale concordando con Durkheim sulla sua necessaria presenza nella vita sociale ma, nel suo approccio, si allontana fin dall'inizio dalla relazione durkheimiana tra società e morale. Boltanski, infatti, cerca di presentare, all'interno di uno schema di classificazione delle azioni, una dimensione della morale fondata sul concetto di amore cristiano, ossia l'agape, senza legarla alla dimensione sociale come aveva fatto Durkheim. Per Boltanski la società non è la fonte esclusiva del comportamento morale e non ne è l'oggetto: al contrario, ritiene che la dimensione morale non abbia fondamenti,  ma si fondi piuttosto sull'azione quotidiana che si fa carico dell'altro. In tal modo il giudizio morale non è il riflesso di una sovrastruttura né di una società sui generis, bensì è un’espressione della condizione antropologica legata, ancora prima che alla filosofia o alla teologia, all'esperienza quotidiana dell’essere umano. Fondamentali, dunque, nello studio morale di Boltanski sono la dimensione pratica (intesa sia come azione che come quotidianità) e relazionale: la morale deve essere studiata come azione, come questione pratica legata alla complessità della vita di ogni giorno, cercando di porre così in rilievo le pratiche dei soggetti che quotidianamente costruiscono e negoziano i significati di riferimento delle proprie azioni, anche quelle morali.
In Stati di pace assume una posizione centrale proprio questa discussione pratica, nella quale vengono definiti i punti di vista morali degli attori sociali e le argomentazioni valide a sostenerli. L’approccio di Boltanski è dunque un approccio costruzionista (ossia i significati sociali sono esito di una continua negoziazione) ispirato alla lunga tradizione fenomenologica francese che va da Focault fino a Bourdieu.
Nei primi capitoli del saggio Boltanski propone il contesto teorico e analitico più ampio in cui si inserisce lo studio della morale come particolare tipo di azione nelle relazioni umane, come forma in pratica dell'interagire umano.
Per riferirsi a queste forme del vivere con gli altri, Boltanski parla di regime d’azione distinguendo tra regimi di disputa e regimi di pace[10].
Nei primi egli suppone esista una discussione tra le diverse prospettive degli attori. Nei regimi di disputa le persone «motivano la propria azione, mettono in opera il proprio senso di giustizia, avanzano delle giustificazioni». Ai regimi di disputa si contrappongono i regimi di pace, perché le relazioni possono svilupparsi, a volte, in modo del tutto pacifico, senza che vi sia la necessità di mettere in confronto le proprie prospettive e, quindi, di sviluppare delle sequenze di critiche. Un secondo parametro dei regimi di azione trasversale alla distinzione appena citata è, per Boltanski, la messa in equivalenza. La messa in equivalenza è un concetto fondamentale nell’opera del sociologo francese in quanto costituisce un'importante distinzione all’interno dei regimi stessi di disputa e di pace. Il concetto intende definire la possibilità di attivare un rapporto nel quale due oggetti possono essere ravvicinati, comparati e gerarchizzati tanto che è possibile affermare la suddetta equivalenza: «A è superiore o inferiore a B" o " X equivale a Y»[11].
Dall’incrocio delle due distinzioni – disputa versus pace; equivalenza attivata versus equivalenza non attivata – è possibile per Boltanski definire le forme attraverso le quali gli individui entrano in relazione tra loro, in sostanza, l’essere con gli altri. Più precisamente, i regimi d’azione così identificati risultano essere quattro[12]:
  1. il regime d’azione in giustizia (un regime di disputa in cui gli individui si “scontrano” sui loro significati di giustizia e di realtà attraverso la logica della messa in equivalenza);
  2. il regime della violenza (un altro regime di disputa dove le prospettive di giustizia si scontrano senza attivare alcuna messa in equivalenza);
  3. il regime di routine (un regime di pace dove non vi sono sequenze di critiche, per cui la pace può essere vista come il risultato di un’accettazione passiva e, in qualche modo, pre-riflessiva, delle forme di equivalenza tacitamente iscritte nell’ambiente sociale)
  4. il regime dell'agape. Quest'ultimo è il regime di pace dove sono attivamente scartate le possibilità di messa in equivalenza fra gli oggetti della relazione e, in particolare, fra le persone. In questo regime, la questione della giustizia non si pone, in quanto essa presuppone sempre una simmetria, una messa in equivalenza che, al contrario, in un tale modo di interagire non è presente. All’interno di un tale regime, allora, le persone sono al riparo dal giudizio e le azioni non sono misurabili in termini di calcolabilità, in quanto il calcolo suppone un accordo più o meno tacito su standard e criteri attraverso i quali tracciare il rapporto tra gli elementi che intercorrono.
La classificazione di Boltanski, introduce dunque una possibilità in sociologia per l'azione disinteressata, che non adotta un criterio del calcolo e dell'interesse per rapportarsi all'altro, che riconosce nell'essere umano un fine e non un mezzo.
Nei successivi capitoli Boltanski approfondisce il significato di agape definendola come l’incontro con l’”uomo che si vede”. Con tale definizione, incontrare “l’uomo che si vede”, concetto mutuato dalla filosofia di Kierkegaard, il sociologo francese vuole intendere un amore verso l’altro che non si curi dell’idea immaginaria su come si crede debba essere, o si vorrebbe che fosse, l’altro. In altre parole, l’agape viene qui declinato in amore verso il prossimo che si contraddistingue in quanto il prossimo non è l’altro vicino socialmente o fisicamente, ma è l’individuo che si incontra sul proprio cammino. «L’attore in stato di agape, non modellando la sua condotta sulla base della rappresentazione fattasi della risposta dell’altro al suo atto e non incorporando nei suoi atti la risposta anticipata di colui al quale si rivolge, non affronta la relazione con l’altro come una sequenza di mosse e di contro-mosse, diversamente da tutte le moderne teorie dell’azione». Nella relazione morale così intesa, l'individuo si pone in uno stato di apertura totale verso l’altro. L'agape trascende la messa in equivalenza e il farsi carico dell’altro, diviene una forma di relazione, una competenza che gli individui possono mettere in atto nell’interagire quotidiano. Per Boltanski, in ultima analisi,  l’agape è il risultato del vivere con gli altri, è un regime d’azione che abita l’ontologia, la quale non è così monopolizzata solo dalla simmetria e dal calcolo. «Ma l’agape – conclude il sociologo - è un caso teorico ancor prima che pratico, che trova difficile realizzazione nella realtà empirica». In pratica:« L'agape (…) non è un valore, ma una particolare forma che può essere assunta dalle relazioni tra gli uomini, forma che deve essere pensata a fianco di altri idealtipi, che definiscono il campo dei possibili modelli di socialità»[13]. Tuttavia, essa può costituire un punto di riferimento sia per l’agire dell’individuo, sia per l’osservatore chiamato a rendere conto di situazioni a volte inspiegabili. Inoltre l’agape, essendo incapace di misurare e calcolare, non può progettare e non può progettarsi. Eppure, l'agape, pur non potendo essere l’oggetto di un qualche programma politico o traduci bile in forme sociali concrete, non è  neanche un’utopia attiva, piuttosto un modello di socialità, un modello di relazionarsi all’altro, una forma del vivere con l’altro che, insieme agli altri regimi d’azione, permettono all’individuo di costruire un ordine sociale ambivalente dove i significati sono continuamente rinnovati dalle pratiche. In  Stati di pace Boltanski trova una conciliazione alla dicotomia creatasi in sociologia tra individuo e società nello studio della morale: l'agape è uno spazio dove l’individuo può aprirsi all’ordine sociale senza perdere nulla della sua unicità, anzi incontrandola e nella dinamicità delle relazioni stimolarne continuamente il cambiamento. E ancora più importante, alla ricerca di "una sociologia dell'amore", come lui stesso afferma nel titolo, Boltanski si ritrova a costruire un paradigma concettuale dove il gesto altruistico ha lo stesso spazio della relazione di violenza o di negoziazione, uno spazio più esiguo e incerto, ma comunque uno spazio che l'essere umano e la collettività può coltivare anche se  non progettare.


[1]             Nucleo di sostanza grigia alla base del cervello, appartenente al sistema limbico. Si ritiene che abbiano a che fare con la memoria emozionale.
[2]    F. Alberoni, “Ti amo”, edizioni Bur 2007: «Per la psicoanalisi l'innamoramento è il prodotto di un desiderio sessuale frustrato, inibito alla meta, mentre la fusione con l'amante e l'amato è il prodotto della regressione ai primissimi anni di vita, quando l'unico oggetto è la madre» , pag. 24.
[3]    Ivi, pag.25
[4]    Ivi, pag.26
[5]    Herbert Marcuse, “Eros e civiltà”, Edizione Piccola Bilioteca Einaudi, 2001; pag. 25
[6]    Ivi, «Ogni lotta per la vita, la lotta per Eros, è la politica», pag.45
[7]    Ivi, «...con questo titolo intendevo esprimere un'idea ottimistica, eufemistica, anzi concreta, la convinzione che i risultati raggiunti dalle società industriali avanzate potessero consentire all'uomo di capovolgere il senso di marcia dell'evoluzione storica, di spezzare il nesso fatale tra produttività e distruzione, libertà e  repressione...», pag.33
[8]    Ivi, pag.37
[9]    Ivi, pag.36
[10] Luc Boltanski, “Stati di pace. Una sociologia dell'amore”, edizione V&P, 2005, pag, 11
[11]  Ivi, pag. 28
[12] Ivi, pag.29
[13] Ivi, pag.17
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