lunedì 21 ottobre 2013

Masturbazioni sociali...


Cosa rende una donna una puttana? Aver avuto molti uomini? E come si quantifica questo molti, e soprattutto chi lo decide?

Sappiamo perfettamente che il metro che le stesse donne utilizzano per valutare il grado di moralità femminile è quello che gli uomini hanno inventato e tarato. Quindi se Mick Jagger può vantare più di quattromila amanti ed essere ritenuto – è la stessa ex moglie, Jerry Hall, a dichiararlo – solo un malato di sesso, una specie di cleptomane della figa, una donna meglio, che le possa andare, è di essere ritenuta ninfomane, altrimenti l'ovvietà di essere tacciata come puttana. Ma si badi: la differenza non è solo semantica ma estremamente sostanziale. A colui che è dipendente dal sesso gli si consiglia di recarsi presso un terapeuta, un dottore che possa aiutarlo in questo piccolo problema, la ninfomania invece è oggi un termine che nel linguaggio comune ha assunto un'accezione generica e dispregiativa per definire le donne sessualmente libere e intraprendenti. Se dovessimo dirla tutta “il furore uterino”, come aveva definito nel 1771 l'eccessivo appetito sessuale femminile il medico francese J. D. T. de Bienville, nel 1985è stato poi catalogato come satiriasi, ossia come forma di ipersessualità alla stessa stregua di quella riscontrata nei soggetti maschili. Fermo restando che non credo né alla satiriasi maschile né alla ninfomania femminile (ma io non sono una psicologa), preferisco rispondere ai dubbi che queste “patologie” presentano in un campo a me più congeniale: la cultura egemone nelle società.

Nel saggio La volontà di sapere Foucault sostiene che: «L'essenziale è la molteplicazione dei discorsi sul sesso, nel campo dell'esercizio del potere: incitazione istituzionale a parlarne, e a parlarne sempre di più; ostinazione delle istanze del potere a sentirne parlare e a farlo parlare nella forma dell'articolazione esplicita e dei particolari indefinitamente accumulati». Per dirla come Marcuse la vita dell’individuo si ridurrebbe al bisogno atavico di produrre e consumare, senza possibilità di resistenza. Nel saggio L'uomo a una dimensione Marcuse denuncia il carattere fondamentalmente repressivo della società industriale avanzata, la quale appiattisce l’uomo alla dimensione di consumatore euforico e ottuso, la cui libertà è solo la possibilità di scegliere tra molti prodotti diversi. È qui che trova spazio la critica che il sociologo tedesco muoveva a Freud: sostanzialmente di aver sostenuto che la repressione fosse un fenomeno storico quando, per Marcuse, la repressione si sarebbe attuata soprattutto nelle società moderne, dove il principio del piacere è stato notevolmente svalutato nel principio della realtà. In questo senso, per lo psicologo austriaco, la lotta primordiale per l’esistenza è eterna, e eterno è dunque l’antagonismo tra principio del piacere e il principio della realtà. In questa lotta perenne la memoria non può che avere un posto centrale non solo come forma psicoterapeutica, ma anche come funzione di progressione storica. «La regressione assume una funzione progressiva. Il passato riscoperto offre norme critiche che sono represse dal presente» scriveva Marcuse. 

In poche parole le società moderne hanno deliberatamente addomesticato il principio del piacere, perché questo mal si confaceva con la politica di una società consumistica e atta al lavoro. «(il piacere, ndr) è incompatibile con le esigenze del dominio organizzato, con una società che tende a isolare le persone, a creare distanza tra l’una e l’altra, e a impedire i rapporti spontanei e le espressioni quasi animali, “naturali” di questi rapporti». Il principio della realtà specifico che ha governato le origini e la crescita della civiltà occidentale è il principio di prestazione sotto il cui dominio la società si stratifica secondo le prestazioni economiche (in regime di concorrenza) dei suoi membri. In sostanza, sotto «la legge del principio di prestazione, corpo e anima vengono ridotti a strumenti di lavoro alienato; come tali possono funzionare soltanto se rinunciano alla libertà di quel soggetto-oggetto libidico che originalmente l'organismo umano è e desidera essere. L’individuo non sa più ciò che avviene realmente: la prepotenza della macchina dell’educazione e dei divertimenti lo fonde con tutti gli altri in uno stato di anestesia nel quale si tende ad escludere ogni idea sospetta. E poiché la conoscenza dell’intera verità porta difficilmente alla felicità, questa anestesia generale rende l'individuo felice». 

Ma solo in apparenza. 

La filosofia della differenza, nata soprattutto con le idee femministe, accusano la società di essere fallogocentrica. Il termine è stato coniato da una psicoanalista lacaniana, Luce Irigaray, la quale intende rilevare come la centralità del logos, della razionalità discorsiva nella tradizione culturale occidentale è in realtà marcata e originata dal fallocentrismo originario della civiltà che questa cultura esprime. Insomma, della cultura egemone, ossia di quella maschile. La Irigaray mostra come nella società la differenza di genere sia stata ignorata e neutralizzata, interpretando la femminilità e la specificità che essa rappresenta come un'immagine riflessa - appunto, specchiata, da qui il titolo del suo saggio Speculum - nell'unica figura di identità concepita, che è  basata appunto sul mondo maschile. In altre parole le donne, al pari degli uomini, non fanno altro che osservare, analizzare, criticare, la propria identità di genere con gli strumenti che gli uomini hanno dato loro: attraverso lo specchio del maschio. « Il femminismo è l'operazione mediante la quale la donna vuole assomigliare (..) al filosofo dogmatico, rivendicandone per sé la verità. Il femminismo vuole la castrazione - anche della donna. Perde lo stile, perde stile». Scriverà Derrida nel saggio Sproni. Per Derrida è proprio l'ignoranza dell'alterità in quanto tale ad aver precluso ai filosofi l'accesso alla  verità, come una sorta di effetto di castrazione, a causa del quale proprio la pretesa di ridurre la verità a oggetto presente, la tentazione di esaurirla in una qualsivoglia definizione, spinge inesorabilmente la verità stessa a una sorta di rimozione.
La rimozione di se stesse.

Allora cosa rende una donna una puttana? Solo lo sguardo che vede solo ciò che vuole vedere. E quello sguardo è un riflesso che la cultura egemone ha inoculato negli individui. Non ha importanza se chi guarda è un uomo o una donna: ciò che conta è che la morale comune, sempre quella doppia morale che non mi stancherò mai di denunciare, sostiene che esistono delle differenze di comportamento e quindi di valutazione.
Nel latino antico puta significava ragazza, solo successivamente si è trasformato nell'accezione dispregiativo di prostituta. Chiediamoci allora come è stato possibile un tale mutamento semantico. E soprattutto chiediamoci cosa possiamo fare per non dimenticare che le parole non sono come foglie che il vento porta via, semmai dei concetti che restano negli anni, nei secoli. Le donne devono imparare ad amarsi, e per farlo devono affrancarsi dalla mentalità maschilista imperante e valutare le situazioni non come lo fanno gli uomini ma come lo farebbe una donna libera di mostrare la sua femminilità, senza paura di essere tacciata come una puttana.
Condividi

L'uso della petizione di principio come tecnica di difesa e come comunicazione politica


La logica della comunicazione è spesso talmente subliminale da riuscire a fuorviare la nostra percezione della stessa. Non che tutto ciò che ci viene iniettato è sempre oggetto di studio o di artifici zenoniani, tuttavia per proteggerci da coloro che, invece, vivono studiando la mente umana non per comprenderla ma per gestirla, credo sia opportuno riflettere sul fatto che davvero a pensar male non sempre si fa peccato e che anzi il più delle volte ci si azzecca.
Un preambolo il mio che non vuole assolutamente assumere alcun giudizio di valore: non è mio interesse studiare il perché delle cose semmai il come avvengono le cose. Perché la comunicazione, affinché sia compresa in tutte le sue forme, deve essere studiata attraverso un atteggiamento scientifico, la dove l'ermeneutica assume valore di analisi oggettiva e non di mera interpretazione soggettiva.

Suppongo che tutti, italiani e non, siano a conoscenza delle situazioni giudiziarie di Silvio Berlusconi. Francamente gli ultimi avvenimenti mi hanno annoiata parecchio e la mia unica riflessione che lo riguardava era che le sue accuse mosse (tanto per cambiare) ai magistrati, con tutti gli sproloqui che sono seguiti, rasentassero il ridicolo.

Invece mi sbagliavo...

L'altra mattina, al mare, avevo al mio fianco due coppie di anziani che parlavano appunto dei “guai” (badate: gli epiteti non sono mai casuali, spesso inconsci, come in questo caso, ma mai casuali. Anziché usare il termine “guai” i miei dirimpettai da spiaggia potevano utilizzare “vicende”, “condizione”, “fatto”, “accadimenti” ecc. l'uso del sostantivo “guaio” denota già la loro posizione in merito), di Berlusconi e tutti e quattro convergevano su un unico punto: “Avrà pure fatto quello che ha fatto... ma i giudici si sono accaniti contro di lui”.

A quel punto Castle of glass dei Linkin Park è diventata rumore e ho iniziato a riflettere che quella che a me era parsa come una comunicazione da “ultima spiaggia” dettata da un uomo che si vedeva finito, in realtà era la solita genialata comunicativa di un apparato imponente che, a quanto pare, sa sempre cosa fare.

La comunicazione può avere come obiettivo la sfera emotiva piuttosto che quella logica. Gli spot pubblicitari ad esempio giocano spesso sull'emotività e sulla sinestesia, mentre le pubblicazioni scientifiche cercano il consenso attraverso l'uso razionale dell'argomentazione proposta. Le tecniche da utilizzare nel primo caso sono solitamente ad hominem, nel secondo caso ad rem.

Gli esperti della comunicazione di Berlusconi, a mio avviso, hanno optato per una tecnica precisa chiamata petizione di principio.

La petizione di principio è una forma particolare di argomentazione ad hominem, che consiste nel postulare ciò che si vuole dimostrare. Per dirla come l'avrebbe detta Aristotele, la petizione di principio anticipa la conclusione di un sillogismo ponendola come premessa maggiore, la dove la sintesi sillogistica non si diversifica in modo netto e deciso dalla tesi.

Farò l'esempio pratico per essere più chiara.

Berlusconi per difendersi dalle accuse che gli sono state mosse non ha dichiarato la sua innocenza in primis, ma la sua innocenza era un preambolo insita nell'argomentazione che vedeva i magistrati tutti contro di lui.
La figura retorica utilizzata è l'isterologia, che prevede l'inversione dell'ordine logico della frase, anticipando ciò che si dovrebbe dire dopo: l'innocenza è postulata come conclusione di una logica argomentativa che vede la faziosità (badate bene mai presunta ma sempre certificata da petizioni di principio: “i giudizi ce l'hanno contro di me”), dei magistrati.

L'ordine della premessa maggiore e della conclusione è dunque invertito.

Se la difesa comunicativa avesse postulato una frase di questo tipo: “Sono oggetto di un'accusa ingiusta”, l'effetto probabilmente non sarebbe stato lo stesso, perché l'inversione semantica prevede anche lo spostamento emotivo: “non vedo più l'oggetto dell'accusa, ma cristallizzo il mio sguardo solo sulla petizione di principio”.

Alcune esperti della comunicazione sostengono illegittima la petizione di principio, o comunque lo intendono come un errore argomentativo, perché il suo campo non è la verità bensì l'efficacia dell'adesione.
In realtà legittima o no, la comunicazione politica ne fa un ampio uso e spesso i contenuti sono la parte marginale del discorso: ciò che conta non è ciò che si argomenta ma come lo si argomenta.



Michela Pisu
Condividi

venerdì 18 ottobre 2013

Ananke




 Racconto...


L’alba non era ancora sorta, ma Ananke sentiva che il suo lavoro, almeno per quel giorno, era terminato. Si sentiva stanca. «Non è facile tessere il destino delle altre vite» pensava stremata. Ma non era solo questo il motivo della sua debolezza. C’era una parte in lei che sentiva di essere la mano invisibile di un abuso. «Che cos’è la libertà se ci sono io a decidere quale direzione dare all’esistenza?»
E Ananke desiderava che quell’abuso terminasse. Anche se non sapeva neppure lei come avrebbe potuto porre fine a quel circolo vizioso. Perché anche l’Ananke, in fondo, non era libera di essere qualcos’altro.
Si adagiò mesta su una soffice nuvola, ad osservare il via-vai dei mondi, sia quelli possibili che quelli già esistenti. Tutto dipendeva da lei.

«Una scuola che non insegni a pensare, che scuola è?»
La domanda era retorica, e la donna la poneva più a se stessa che non allo stuolo di visi spenti davanti a lei. «Ricordatevi che siete liberi» continuava, «ma questa libertà, ragazzi, ve la dovete costruire».

Ananke conosceva a memoria quel discorso, l’insegnante lo faceva ogni inizio anno, e ogni volta i suoi allievi sembravano non voler capire che scegliere è un dovere, e che ogni scelta è frutto di una libertà: gli alunni restavano muti, mentre tentavano di impressionare sulle loro realtà le parole della professoressa in cattedra.

Era davvero così come sosteneva la donna? Se lo chiedevano, probabilmente i ragazzi… Se lo chiedevano gli occhi che osservavano silenziosi dall’alto della soffice nuvola.

Ananke però non ne era sicura. Se avesse avuto ragione l’insegnante, allora tutta la sua esistenza non avrebbe avuto alcun senso.
«Nell’arco di una vita spesso dimenticanze e ricordi non sono altro che fili sottili che s’intrecciano magicamente, le nostre menti e i nostri cuori amalgamano le esperienze e le rendono sensazioni concrete, senza rendersi conto che qualche volta ciò che si ricorda e ciò che si dimentica non sono realtà vissute, ma solo pensate.»

Chiusa nel suo mondo Ananke aveva molto tempo per riflettere, e con il trascorrere del tempo, anche la sua eternità iniziava a pesarle. «La storia che continuo a scrivere nel mio tempo infinito va letta attraverso un’ottica di chiaroscuri, perché tutto ciò che ognuno di noi pensa o sente sono solo delle credenze incastonate dentro una bolla di sapone, meravigliosa certo, ma pur sempre una bolla di sapone: evanescente, svolazzante. Proprio come l’Atman, assolutamente privo di consistenza, eppure talmente vivo da riuscire a soffocare il mio spirito. Questo è e sarà per sempre il mio mondo.»

L’Atman, dove Ananke risiedeva, non era un mondo o uno spazio, piuttosto una sfera concentrica posta in posizione intermedia tra il mondo celeste e quello degli inferi. Ognuno con i suoi compiti, ognuno chiuso nella sua stessa percezione, e non era scritto che le tre dimensioni dovessero conoscersi. Ognuna senza una realtà effettiva, eppure esistente. Il destino viveva nell’Atman, in perfetta solitudine. Unico suo compito: creare delle ragnatele di vita.

«Tutti parlano del destino» commentava tra sé Ananke «ma nessuno sa cos’è. Chi sono? Sarebbe più facile raccontare chi non sono. Non sono la coscienza. Non sono una vita, anche se esisto illimitatamente. La mia è un’eternità fradicia di non sensi, perché il mio vissuto ha senso solo se ci sono le  vite non eterne. Io sono l’Ananke, ossia colei che determina tutti i destini del mondo, colei che osserva ogni passo, ogni attimo mormorato. E sono sola. Sola nel mio immenso soffio vitale. Non mi è consentito amare, non mi è consentito odiare, e neppure farmi solleticare dalla curiosità. Perché questo potrebbe portarmi a deviare il corso degli eventi. Sono io a tessere il destino dei mondi. E in questo mio fare non c’è volontà: solo un attualismo mistico.

Chi sono coloro per i quali tesso il destino? Ebbene, non  lo so.
Osservo dal mio mondo tutte le vite che faccio nascere, e persino quelle che spezzo, so cosa decideranno durante il corso della loro esistenza. Ma neppure questo mi consente di capire chi siano. Io per loro sono un occhio nel cielo, e loro per me sono le membra di un corpo. Non c’è nulla che possa separarci, eppure non ci incontreremo mai. Qualche volta noto che il loro sguardo è rivolto lontano, sono i momenti in cui penso che possano vedermi. Ma mi illudo, perché il destino non può essere visto. Vorrei spiegare che non c’è cattiveria in me, ma neppure bontà. Il loro successo, così come i loro insuccessi non sono il frutto di una libertà: è la contingenza che domina il mondo. E io, Ananke sono la regina di questo regno di carta.»

Il suo vivere nell’Atman le era sempre apparso un ricordo sfumato, una vita che urlava una maggiore elevazione di con­cretezze, così lontane dalla realtà astratta che aveva fatto di lei l’Ananke. Per questo motivo la mano invisibile del destino iniziava a desiderare essere qualcos’altro. Chi lo avrebbe mai detto che il fato si sarebbe stancato di osservare la vita degli altri, e avrebbe anelato a viverne una sua propria? Probabilmente neppure questo era scritto.
«La voglia di esistere come vita è così potente da non permettermi di respirare l’aria dell’Atman». E il desiderio era tanto forte, quanto blanda era la capacità di comprendere quanto fosse sterile quello stesso desiderio: se l’Ananke fosse scomparsa, quali altre vite avrebbero potuto attuarsi? Ma ogni pensiero è fugace, e ogni consapevolezza necessita di un muro sul quale sbattere.
Eppure, Ananke viveva attraverso la vita degli altri. Era l’insegnante che spiegava il concetto di libertà ai suoi alunni, era l’adolescente innamorata, l’amante perduta, aveva attraversato il Rubicone, percorso le fiamme delle rivoluzioni: non c’era niente che lei non avesse vissuto. Niente che non avesse sentito indispensabile far accadere.
«Ho superato esili forzati» rimuginava «allora perché non riesco a superare l’esilio della mia necessità?»
Ma indispensabile per cosa, o per chi? La ruota girava secondo una logica perversa, e nessuno avrebbe potuto fermarla. Neppure il destino.
«Ti è concessa solo un tipo di conoscenza» Ananke spettinò la sua zazzera argentea e Mister Ugo, un piccolo e anziano ragno scrivano che dormiva vicino al Libro dei mutamenti, l’unico testo che il destino avrebbe dovuto conoscere, fu costretto a mollare la presa sulla ciocca di capelli. «Se continuerai a desiderare l’indesiderabile finirai col metterti nei guai.»
«Gli umani» rispose Ananke, «così boriosi della loro natura razionale, mi hanno insegnato che ogni dovere è vita, e che ogni sentimento è amore, tuttavia non riescono ad accettarsi e non ho mai capito il motivo che li spinge ad allontanarsi da loro stessi. Le vite dell’Atman si diversificano attraverso semplici fotogrammi incorporei, ma gli umani, con i loro molteplici colori e mutamenti, riescono a creare un’individualità quasi magica, che per nulla al mondo dovrebbe essere cancellata.» «Il motivo di tanta inutile caparbietà» spiegò Mister Ugo, «è dovuta al fatto che non sanno di essere dei semplici possibili attuati, e che è solo una casualità il loro essere determinato. Così testardi e stupidi, continuano a guardarsi senza mai vedersi.»
«Guarda l’invisibile e saprai cosa scrivere»  
Dove aveva sentito quella frase? Poi Ananke ricordò. L’aveva pronunciata un personaggio in una di quelle strane trame, che gli uomini chiamavano film.
«Ci sono altri mondi, oltre quelli che devono rispondere alla mia necessità» commentò, «i mondi virtuali, le realtà che gli umano creano: le storie che scrivono o che impressionano su una pellicola. Sono vere anche quelle vite?»
«No» rispondeva subito il ragno, «sono finte, virtuali. Non rispondono a nessuna logica.»
«Vedo della coerenza per la mente che le ha pensate» ribadiva Ananke.
«Non rispondono alla logica del destino» pressava Mister Ugo.
«In quelle storie il destino è altro da me, ma questo non significa che sia sbagliato»
«No» rispondeva il ragno, «non sbagliato, finto. Loro potrebbero anche pensare e scrivere qualcosa di diverso, ma noi sappiamo che nell’esistenza non c’è libertà. Tu sei la loro scelta.»

Gli occhi di Ananke, tuttavia, continuavano a scrutare attentamente ogni piccolo passo di quell’esistenza alla quale non sarebbe mai appartenuta: voleva conoscere a cosa dava impulso in ogni stante della sua eternità. Spesso si era chiesta se anche gli altri esseri avrebbero potuto decidere cosa essere. Si chiedeva se anche l’Ananke, con la sua ordinata dispersività, potesse essere qualcos’altro da ciò che era. Ma sapeva che la sua stessa natura non era da lei decisa. E tutto ciò la allontanava da se stessa.

Fu allora che Ananke fuggì. Fuggì da se stessa e dalla sua eternità. Fuggì dall’abuso di dare vita alle vite degli altri. E viaggiò.

Viaggiò nei diversi mondi che lei stessa aveva determinando semplicemente esistendo. Conobbe molti esseri, ma di tutti quegli esseri Ananke già sapeva ogni loro pensiero, ogni loro azione passata e anche quella futura. Il destino li guardava come solo chi sa. E si annoiava. Perché non vi può essere curiosità di conoscere per chi conosce già tutto e se sei l’ananke, il destino smette di essere cieco anche se continua a non vedere. Ananke avrebbe voluto sentire l’esistenza scorrerle in lei, desiderava poter toccare con mano il futuro che lei stessa tesseva. Avrebbe dato qualunque cosa pur di vivere liberamente una vita fragile e puerile. «La mia eternità per un briciolo di vera esistenza: un sorriso per una lacrima».
Ed era così forte il suo desiderio, tanto da portarla lontano, sempre più lontano dall’Atman. Il destino non era ancora pronto per ascoltare il richiamo della necessità. Così lasciò che un vento di sospiri la trascinasse sempre più lontano dal suo mondo. E mentre percorreva quel viaggio a ritroso le parve di sentire le anime del mondo che la scongiuravano di tornare sui suoi passi, di non abbandonarle bloccate nell’etere. La pregavano di non dimenticarsi chi fosse, la supplicavano di non smettere di essere l’Ananke. Le sue orecchie, però, preferirono non ascoltare.
«Non so cosa sono o cosa farò, e tanto meno non riesco ad accettare la mia natura, ma sento che in fondo la scelta su chi essere o su cosa fare non è poi così importante, perché il tutto comunque apparterrà al nostro soggettivo sguardo, e niente potrà cambiare. Molti filosofi hanno cercato l’oggettivazione della realtà, l’aspetto noumenico dell’esistenza, ma la vita è solo una favola e come tale va vissuta. Una favola magica dove ci si accontenta d’essere regine almeno per un giorno, anche se solo di un regno di carta. È davvero ciò che desidero?»

In quel suo istante di eternità Ananke si rispose di sì, una sentenza che non poteva essere cambiata perché ogni decisione è presa nel suo istante, e non si può mai tornare indietro.
Ananke si lasciò dunque trasportare dai suoi sogni, finché raggiunse la conclusione di quel capitolo di un libro scritto per caso.
«Ho sentito un richiamo che mi reclamava, era la voce imperitura di Ananke che troppo spesso, forse, avevo soffocato disperatamente senza lasciarla respirare.»
Ma solo quando ogni essere ascolterà la propria voce interna dello spirito di vita non ci sarà più bisogno di pensare sul perché e sul percome delle cose: già tutto sarà conoscenza. E Ananke continuava a credere che fosse stato un abuso dare vita alle vite.
«Non voglio assecondare questo abuso.»
Così man mano che continuava il suo andare, si rendeva sempre più conto che il cammino che percorreva era simile a quello di un sonnambulo senza sonno. Vagabondava dentro un tunnel fosforescente e petroso, in cerca di qualcosa che le avrebbe permesso di capire perché era così necessario che sostasse nell’Atman.
«Perché devo essere l’Ananke?»
Mentre si allontanava chiudendo gli occhi, poteva ancora sentire i versi che l’avevano iniziato alla vita:

Un uomo solo
a largo
soffia sfiatato su un mare
in tempesta.
Braccia inesperte si agitano
e il mare si muove sinuosamente.
Cerca il tutto
di quel niente che c’è
di quella vita mostrata
e mai completamente data.
Un uomo solo
a largo
soffia sfiatato su un mare
in tempesta
e muore così,
sommerso
da un’onda soffiata
con troppo fiato

Ananke si rendeva conto che il suo dovere era quello di essere in perfetta simbiosi con la sua volontà, ma questa scoperta sarebbe avvenuta dopo. Dopo aver percorso uno strano viaggio, un altro. Un viaggio che la condusse verso il concetto di possibilità e di necessità.
«Alienarsi dalla propria essenza di vita é semplice e anche liberatorio a volte, ma tornare in sé significa rinascere.» Questo pensiero le attraversò la mente proprio mentre il turbine la sovrastava, spingendola oltre il suo naturale procedere.
Un vento di sospiri strazianti spingevano il suo avanzare, era talmente forte che avrebbe dovuto aggrapparsi in qualche cosa, ma sentiva che le pareti del tunnel pur essendo petrose erano troppo lisce per fare da appiglio. Le forze la abbandonarono e scivolò trasportata dal forte vento di sospiri.

Quando Ananke si svegliò si trovò davanti ad un cartello con su scritto:

BENVENUTI NEL PAESE DI KALPA
La possibilità di un mondo
  
Subito dopo notò delle case fatte di sabbia rosa che sembravano appartenere ad un quadro dipinto con pennelli di vita reali. I colori pastello di Kalpa davano la sensazione di cadere in una profonda serenità, e il via-vai di trovarsi in un allegro mercato di letizia. Ananke non ebbe modo di conoscere coloro che abitavano Kalpa, probabilmente perché non era loro possibile vederla. Solo una strana creatura le si avvicinò: quasi certamente era l’unica in grado di osservare oltre la possibilità non ancora attuata.
«Tu non sei una creatura di Kalpa. Da dove vieni?» chiese quella con voce stridula e curiosa.
Ananke la osservò: non era come gli essere umani, e neppure diversa. La parola simile forse era comunque la meno indicata perché Tory, quello era il suo nome, non era un essere umano. Se qualcuno le avesse chiesto di pensarsi, la creatura di Kalpa avrebbe risposto semplicemente che lei non poteva farlo, perché per pensare è necessario esistere, e lei non esisteva. Non ancora almeno. 
«Mi chiamo Ananke» rispose il destino «e un vento di sospiri mi ha portato fin qui».
«Cosa vuol dire essere creature di Kalpa? » chiese ancora.
Tory la guardò un po’ stupita e poi rispose.
«Siamo dei creati della Perfezione Necessaria, ossia del tutto che c’è, ma anche di quel tutto che non c’è. Tu non sei una creatura? »
«Nell’Atman» cercò di giustificarsi Ananke «è la Vita Spirituale che ha dato l’impulso alle vite, secondo una necessità totalmente libera, nel senso che ogni vita è libera di essere la vita che desidera essere.»
«Noi creature non possiamo decidere cosa essere, ma siamo quello che necessariamente dobbiamo essere. Non appartiene alla nostra natura scegliere, perché si è sempre ciò che si deve essere.»
Ci fu una breve pausa, poi domandò ancora.
«Una vita è libera anche di non essere vita?»
La risposta che il destino diede, ancora adesso, riecheggia nelle diverse orbite in cui risiedono i mondi, perché fu allora che Ananke comprese il vero significato di ciò che era.
«Nella singolarità della propria essenza le vite sono libere di non esserlo, ma nel contesto universale la Vita Spirituale, dando l’impulso alle vite di essere non ha dato nessuna possibilità di non essere: ogni vita sente dentro di sé la sua natura di vita, e anche quando decide di rinunciare a se stessa lo fa sempre per amore di quella vita che le è stata donata.»
E mentre dava quella risposta Ananke sapeva che era proprio questo ciò che le era accaduto quando avevo tentato di rinunciare alla sua vita nell’Atman, per rifugiarsi in un mondo che non avrebbe mai potuto appartenerle.
«Non mi sembra sinceramente che ci sia poi tanta differenza tra l’essere una vita che non può essere libera di non essere vita, ed una creatura che necessariamente sarà sempre ciò che necessariamente è.»
La riflessione spontanea di Tory fu come un fulmine a ciel sereno, perché fece capire ad Ananke che anche le diversità spirituali in fondo erano semplici apparenze, e che probabilmente uomini, creature e vite appartenevano ad uno stesso nucleo originario guidato da un bizzarro destino dalle tante mani.
«In fondo io sono l’Ananke, e chi più di me conosce i fili che manovrano quelle mani?» pensò.
A Kalpa tutto sembrava essere possibile, la sua stessa esistenza era solo una possibilità. Il volto della necessità e il volto della possibilità  scavavano lentamente nel viso del destino e Ananke si sentiva soffocare.
«Sento che la spiritualità dell’Atman continua a richiamarmi a sé»
Ma Ananke non era ancora pronta per tornare.
Tory si mostrava allegra, sempre pronta a condurre la sua ospite dentro la realtà di Kalpa, accompagnandola con il suo frenetico chiacchierio indisciplinato.
«Come conducono la loro esistenza le creature? » chiese la voce della necessità.
«Ognuno» rispose Tory «segue i compiti che gli sono stati assegnati. Ad esempio i buoni compiranno sempre azioni buone, mentre i malvagi sempre azioni non buone.»
Ananke la guardò sbalordita.
«Fai sembrare determinante l’essere buoni o l’essere malvagi, come se la tendenza al bene o al male fosse innata.» commentò la voce della possibilità.
«E non è forse così? » rispose Tory con semplicità.
«Se una creatura malvagia volesse essere buona non potrebbe esserlo? O se una creatura buona venisse tentata dal compiere qualcosa di malvagio, non potrebbe lasciarsi tentare? »
«Tu non capisci perché nell’Atman le vite possono decidere di essere buone o cattive, ma qui a Kalpa nessuno che sia necessariamente malvagio desidererebbe non esserlo, perché questo comporterebbe una presa di coscienza della sua stessa natura, come se quest’ultima fosse a lui estranea. Il buono e il malvagio sono tali solo agli occhi degli altri perché ognuno di noi può essere spettatore degli altri, ma non di se stesso.»
«Perché non si può essere spettatori di se stessi?» chiese ancora Ananke, stupita.
«Se così fosse» spiegò la creatura «ci sarebbe il caos: tutti, infatti, cercherebbero di sfuggire da se stessi.»
«Forse solo di migliorarsi…»
Tory rise a quelle parole.
«Migliorarsi in che senso? Dovrebbe esistere, o quanto meno si dovrebbe conoscere una perfezione che fosse altro da quella necessaria, ma questo significherebbe cercare di raggiungere una pseudo-perfezione. Mi sembra in ogni caso qualcosa di non fattibile.»
«Quindi» continuò la voce della contingenza «tu non sapresti dirmi se sei una creatura buona o malvagia».
«L’idea che ho di me» rispose Tory «é quella di essere una creatura che convive pacificamente con se stessa. E tu sai rispondere a questa domanda? »
Ananke pensò attentamente a cosa conosceva di se stessa.
«Io credo di essere una vita che non sa in definitiva cosa è bene è cosa è male, sono al di sopra di tutto questo.
«Sì» insistette l’abitante di Kalpa, «ma mi sapresti dire in senso assoluto che tipo di vita sei? »
«Temo di no» chiosò l’altra mesta, «ho solo una vaga percezione dell’ipotetica direzione in cui la mia libertà mi spingerà.»
«Come vedi» concluse la creatura «nessuno conosce realmente la sua vera natura perché non è possibile avere una piena coscienza di se stessi.»
Poi Tory diede un calcio distratto ad un sassolino, come se volesse allontanare da sé i cattivi pensieri che l’Ananke le stava sibilando come un diavolo tentatore. Quando la sua espressione cambiò improvvisamente: un ricordo venuto da lontano fece capolino sulla sua memoria di creatura.
«Lascia che ti racconti una storia. Bada è solo una storia, senza senso e senza un perché. Eppure, è la nostra storia.»

La creatura e il destino si adagiarono su una roccia, mentre il mare azzurro tentava di arrivare fino ai loro piedi. Ananke si ritraeva a quel contatto, ma non Tory: lei lasciava che le onde la accarezzassero.
«Io adoro il mare» disse con serenità «e se non fossi la creatura che sono, mi piacerebbe appartenergli. La protagonista della storia che sto per raccontarti ha provato a cambiare la sua essenza, ma poi è dovuta tornare indietro…»
Tory, senza saperlo, raccontò la storia del destino di ogni essenza di vita. Raccontò la storia di Eleni, la ragazza che voleva respirare senza l’ossigeno.

Eleni era una ragazza come tante altre: semplice e complessa, ambiziosa e silenziosa. Passava le sue giornate ad ascoltare le onde del mare, e scriveva tutto ciò che l’azzurra distesa acquosa le mormorava. «Eleni sa parlare al mare» dicevano tutti. Ma non era esatto: Eleni non parlava al mare, semplicemente lo ascoltava. Ma quella sera non riusciva a capire le parole: era come se il suo spirito non riuscisse a liberarsi dai pensieri tanto complessi quanto vuoti, e così le molteplici ispirazioni vaganti nella sua mente stagnavano in confusioni sottilmente incomprensibili, come se non volessero farsi scrivere, farsi racchiudere. La brezza della sera si era fatta più fresca ed Eleni sentiva il suo viso acceso di un biancore autunnale: se solo avesse potuto liberarsi...
«Già liberarmi» si continuava a ripetere «ma liberarmi di cosa? »
Tutti i significati delle cose le sembravano forse troppo stupidi e gretti, eppure in altri istanti era proprio la sublimità del tutto che l’affascinava, lusingata quasi di essere una vita. «Una vita con l’animo da artista» le piaceva sentirselo dire, credere di essere speciale. Ma era davvero così speciale?
Le strade erano decisamente troppo affollate ed Eleni si sentiva troppo sola dentro per non desiderare di esserlo anche fuori.
«Solo il mare può capire i miei abissi, perché anche in lui le profondità del suo blu sono tanto intense da essergli talvolta insopportabili» pensava.
La sabbia avrebbe dovuto attendere un inverno intero prima che il sole la riscaldasse, ma ad Eleni piaceva sentirla fredda: le sembrava più compatta del solito. Ne prese un pugno e la fece scorrere tra le dita: tanti granellini legati fra loro da una forza invisibile sembravano giocare, come se si fossero trovati in una grande giostra dai movimenti lenti e articolati.
«Ci piacerebbe giocare ancora con te, ma dobbiamo proprio andare. Su forza mettici giù.»
Due granelli paffuti provvisti di valigie si piazzarono al centro del palmo della mano di Eleni, dimenandosi per attirare la sua attenzione.
«Ma chi parla?» chiese la ragazza stupita.
«Come chi parla? Noi, guardaci un po’»
«Due granelli di sabbia che parlano?»
«Perché ti stupisci, che c’è di tanto strano, su dai che abbiamo fretta»
«Perché avete le valigie, partite?»
«Secondo te?» rispose con insolenza il granello che indossava un cappello di paglia «Traslochiamo, andiamo a stare da Marino: per due granelli anziani come noi è necessaria un po’ di tranquillità. La spiaggia è diventata davvero invivibile, soprattutto con l’arrivo dell’estate»
Eleni pensò a quanto amava camminare a piedi nudi sulla calda sabbia, ma non disse niente: non si era mai accorta che quel semplice gesto potesse recare fastidio a qualcuno. Meno che mai alla rena. «Ma la sabbia» considerò « è fatta di granelli…»
«Adriano ed io preferiamo così, e comunque la decisione è presa» continuò il solito granello.
«Agnese, perché non fai vedere alla nostra giovane amica il depliant della zona in cui dovremo trascorrere la nostra vecchiaia?»
Il granello chiamato Agnese indirizzò un’occhiata torva al granello al suo fianco. «Adriano» chiosò «non se è il caso» ma poi estrasse dal cappello di paglia un foglio colorato che porse ad Eleni con non poca soddisfazione.
«Davvero bello!» considerò Eleni guardando le immagini di una spiaggia chiusa in un’insenatura naturalistica. «Anche a me piacerebbe vivere in un luogo simile.»
«Perché non vieni con noi?»chiese il granello chiamato Adriano.
«Ma che dici» obiettò Agnese «non credo sia possibile, non ha il vestito adatto»
«Sciocchezze! Sei la solita fissata con la moda»
«Se non sono di disturbo, mi piacerebbe venire» confermò Eleni con entusiasmo.
«Forza allora, mettiamoci in viaggio prima che faccia buio» aggiunse Agnese rassegnata.
«Ma c’è un problema» disse timidamente Eleni «io non so respirare sott’acqua»
«Allora non farlo. Ti sorprenderai nell’accorgerti che non ne avrai bisogno» le disse dolcemente Adriano.
Eleni non era del tutto convinta ma si lasciò guidare dai due granelli.
L’acqua era fredda e i piedi scalzi di Eleni si ritrassero più volte dal suo tocco, mentre i due granelli di sabbia furono immediatamente sommersi. Quando il coraggio prese il sopravvento sui dubbi, Eleni fu catapultata sul mondo marino e si stupì del fatto che Adriano avesse ragione: non aveva bisogno di respirare, perché ciò che voleva più di ogni altra cosa era seguire le onde.
Man mano che si andava più avanti e più nelle profondità, la vegetazione si faceva sempre più fitta. Ma la presenza più tangibile era la pace, una pace strana, armoniosamente ondeggiante di musica frusciante.
«Ogni creatura» spiegò Tory «era ciò che doveva essere. »
All’improvviso i due granelli si fermarono davanti ad una piccola fessura concentrica.
TOC! TOC!
«Parola d’ordine!» e apparvero da quella fessura due occhi rossi di pesce.
«NIENTE PESCI SULLA MIA TAVOLA!» dissero in coro Agnese e Adriano.
«Entrate pure» disse allora la guardia «Alfredo vi sta aspettando»
«Chi è Alfredo?» chiese Eleni
«Oh! il nostro agente immobiliare, un pescepalla un po’ noioso, ma onesto. Eccolo, sta arrivando» spiegò Adriano.
«Agnese, Adriano, amici cari, vi stavo aspettando con ansia. Ma che vedo, non sapevo aveste una figlia!»
«Infatti, non ne abbiamo, o perlomeno non di quelle dimensioni. Lei è Eleni» rispose un po’ sconcertata Agnese.
«Ah! sì certo, effettivamente non vi somiglia neanche un po’. Immagino allora che la nostra Eleni sia venuta per la famosa festa delle sorelle Aragoste»
«La festa delle sorelle Aragoste?» chiese stupita Eleni.
«Tutti gli anni le sorelle Aragoste organizzano un ballo per sensibilizzare gli abitanti di Marino a convivere secondo i precetti della fratellanza. Ci sono giochi, lotterie e soprattutto tanta buona musica con gli Aquatik, il gruppo rock più in voga del momento!»
Eleni pensò che sarebbe stato divertente partecipare.
«Non mancherò» confermò «Verrete anche voi?» fece rivolgendosi ai due granelli.
«Ma sì, sì, verremo anche noi» rispose spazientita Agnese «prima però bisognerà trovare un alloggio anche a te. Alfredo ci pensi tu?»
«Ma certo, ho proprio un’ostrica per perle in luna di miele che sembra fatta apposta per lei. Un gioiellino credimi, e visto che è la prima volta che vieni nel nostro mondo ti faccio un prezzo stracciato: solo un barattolo di esche vive. Me le spedirai appena tornerai nel tuo mondo.»
Eleni avrebbe voluto spiegare che non era sicura di tornare nel suo mondo, ma preferì non dire niente e seguì il pesce palla, sentendosi però una ladra.
L’ostrica era rosa e bianca. «Abbiamo tolto la perla» spiegò Alfredo «Le sposine vogliono essere le più belle nel loro giorno di festa, ma come fai a dire ad una perla cerca di essere brutta?»
«Capisco» commentò Eleni «ma poi le perle tornano dentro la loro ostrica?»
«Sì, certo» spiegò il pesce palla «è solo per la notte di nozze, poi tutto torna come deve essere. » 
Non appena Alfredo la lasciò sola, Eleni si fermò a pensare a tutto quello che le stava capitando e mentre tentava di trovare una spiegazione razionale, un gambero in frac entrò senza bussare. Con tanto d’inchino si presentò come Rossano, primo ministro, tesoriere, scrivano, nonché capitano delle guardie del regno di Marino. Portava un messaggio del suo superiore: Eleni avrebbe dovuto presentarsi  al cospetto di Marino in persona.
«Marino desidera vederla, mi segua»
Dopo qualche secondo Eleni si trovò davanti ad un enorme castello fatto di sabbia cristallina, circondato da muscolosi pescespada come guardie di sicurezza. Eleni e Rossano salirono su una bolla verde che li portò nel piano superiore, dove si trovava la stanza privata di Marino. Nessun trono regale, nessuno sfarzo, solo una voce frusciante.
«Qual è lo scopo della tua visita?» chiese la voce frusciante.
«Non saprei» rispose timida Eleni «è necessario avere uno scopo per essere in questo mondo?»
«E’ necessario aver uno scopo per essere in qualsiasi mondo» replicò Marino in tono secco, «quindi è bene che tu trovi il tuo il prima possibile, perché non è naturale la tua presenza qui. Non saresti dovuta venire. È pericoloso sia per te, che potresti risvegliarti dall’incantesimo e non riuscire più a tornare indietro, sia per noi che poi avremmo il compito di riportarti in superficie. E credimi, non è un’impresa sempre facile riportare in superficie coloro che si perdono.»
Fuori del castello l’aria di festa era quasi respirabile: colori, grida di gioia e musica si riflettevano nell’acqua. Sardine in bikini roteavano il loro stretto bacino per non perdere l’hula-hoop, granchi su biondi cavallucci facevano a gara per raggiungere il traguardo per primi, e non mancava neppure una piovra vestita di bianco che vendeva gelati.
«Che te ne pare? » di nuovo la voce frusciante che le era vicino parlò.
«E’ tutto meraviglioso, il mare è meraviglioso» rispose Eleni stupita di ciò che vedeva. «Vorrei poter restare per sempre qui. Sento che è questo il mio mondo»
«Ti sbagli» sentenziò la voce frusciante, «il tuo posto non può essere qui. Tu non sei come noi e non lo sarai mai, neppure se ti facessi crescere le branchie potresti trovare il tuo scopo in questo mondo…»
Come Marino decretò il suo verdetto Eleni sentì un immediato bisogno di respirare «soffoco, non respiro... » l’incantesimo si era ormai dissolto: fu costretta a nuotare veloce verso la superficie.
Tornò in riva, appesantita dagli abiti fradici si buttò stanca e sfiatata sulla spiaggia. Riprese un’altra manciata di sabbia, ma nessun granello le parlò.
«Non si può sognare per due volte di seguito il proprio desiderio e viverlo» pensò ad alta voce. Eleni si diresse verso casa, in quel mondo nel quale avrebbe trovato il suo scopo di vita.

Tory tolse i piedi dall’acqua. «Se hai bisogno dell’ossigeno per vivere, puoi anche pensare di possedere delle branchie piuttosto che i polmoni, ma non sei libera di non respirare.»
Ananke aveva capito cosa voleva dirle la creatura di Kalpa
Ma se il destino era necessità qual era la necessità di Ananke?
«In ognuno di noi c’è un po’ di Eleni» disse Tory, «ma ognuno di noi sa che non può essere ciò non è».  Ad ogni modo Ananke doveva ascoltare prima se stessa per poter dare la risposta alla domanda.

Per tutta la sua permanenza in quel mondo pitturato solo con colori pastello, Tory fu per Ananke una guida verso la conoscenza del significato di creatura. In seguito capì che quel mondo dove era approdata nel tentativo fuggire dall’Atman non era altro che una possibilità: Kalpa non esisteva nella realtà, ma avrebbe potuto esistere se la sua dimensione di mondo possibile si fosse resa attuale e concreta. Ananke iniziò a chiedersi se le creature di quel mondo, che ancora non aveva raggiunto una posizione determinata nella dimensione del necessario, fossero consapevoli e coscienti di quel loro non essere ancora. Ma in fondo non aveva nessun’importanza, perché qualunque fosse stata la risposta, Kalpa e le sue creature avevano percezione di se stesse come dei reali, e il destino non ritenne necessario interrompere quel sonno di probabile esistenza.
La vita dell’Atman andò via dal paese della possibilità senza guardarsi indietro, e senza conoscere quale destino Ananke avrebbe riservato a Kalpa.
Mentre si dirigeva verso l’uscita di quel mondo, una cantilena risuonava nella sua mente, sembrava quasi una predica funerea, o forse era solo una premonizione ambiguamente sentita:


Un dormire eterno
un dormire oscuro
una morte come veglia
di una notte che non dorme
percorso di strade
che non hanno percorso.
Ma adesso silenzio
che la notte vuole dormire
e domani,
domani tremate
miei piccoli angeli
tremate perché là fuori
vi aspetta la vita
 

Il viaggio di Ananke verso la conoscenza di se stessa, però, non terminò con Kalpa. Il destino continuò a camminare senza una meta precisa, senza un vero perché. Il destino fece proprio come Eleni: seguì ancora una volta i granelli dei suoi desideri.
Ad attenderla c’era, come sempre, Mister Ugo.
Scese lentamente attraverso una delle ciocche argentee di Ananke.
«Il tuo destino è conoscere solo i mutamenti» disse «ma tu continui ad ostinarti ad andare a cercare qualcosa che non ti compete. E io sono oramai troppo vecchio per continuare a seguirti in questo angusto viaggio. Perché anche il mio destino sei tu a segnarlo, anche se non te sei mai accorta. Guardami e dimmi cosa vedi»
Ananke vide un piccolo ragno rugoso che a malapena riusciva a reggersi in quelle sue zampette smagrite e pelose. Un plaid di lana soffice lo avvolgeva, ma era palese che il freddo si era impossessato di lui.
«L’unica certezza che abbiamo» sentenziò con voce rauca il ragno «è il presupposto che una vita è anche una morte.»
«Sto solo cercando di capire» piagnucolò Ananke. «Non voglio restare sola, non posso sopportare anche la sua dipartita. Non posso essere io l’artefice di questo destino. Non voglio…»
Mister Ugo la guardò sofferente. «Come farti capire che noi siamo solo di passaggio? Come farti capire che il nostro passaggio dipende da te. E come farti capire che non sei tu a decidere?»
«Mi aveva promesso che non mi avrebbe abbandonata» gemette ancora Ananke.
«Non è esatto» rispose con dolcezza il ragno, «ti avevo promesso che ti sarei stato vicino finché avresti avuto bisogno di me, ma presto ti accorgerai che i mutamenti sono vicini.»
Mister Ugo lasciò i capelli argentei l’indomani, e con la sua morte morì anche una parte di Ananke.

Una rosa rossa piange di petali perduti,
il vento li sparpaglia
e la spiaggia bianca di mari profondi
 li accoglie profondamente in sé.
Un urlo trafigge il suo silenzio
colmo di piene speranze,
 ma il cielo ascolta chissà perché,
e non desta rumori...

Fu il requiem che il destino recitò come segno di saluto al suo amico di sempre. Ananke si abbandonò al suo dolore, alla sua immensa solitudine. Sembrava rapita da qualche forza fuori di sé. Sentiva che dei cambiamenti nel suo spirito stavano avvenendo, sentiva che l’Ananke si stava risvegliando con tutta la sua forza. Un urlo agghiacciante le scoppiò in petto. La libertà, prorompeva dentro sé in tutta la sua pienezza. Ma non era la libertà, piuttosto il suo essere necessario che cercava di riportarla indietro.
«Oltre quel vento di sospiri che mi aveva spinto fuori dell’Atman» pensò Ananke, «forse sono tornata a casa.»

Ma il cammino del destino era ancora lungo. Si accorse ben presto che non si trovava dove invece sarebbe dovuta essere. Dopo un lungo procedere,  giunse davanti ad un casolare, apparentemente disabitato.
Entrò. La polvere ricopriva il mobilio e le ragnatele si erano impadronite del soffitto. Solo il fuoco del camino acceso dimostrava che c’era qualcuno. In effetti, seduto su un divano polveroso e logorato dal tempo vi era un uomo anziano. Se le rughe rispondessero all’effettiva età così come i cerchi del tronco di un albero, si sarebbe  potuto dire che l’uomo doveva avere almeno cento anni. Osservava le fiamme, in silenzio e completamente immobile.
Ananke si sedette accanto a lui.
«Cosa osserverà con tanta intensità?» chiese a se stessa, ma il vecchio riuscì a sentire i suoi pensieri e rispose.
«Il loro viaggio» e con un ossuto dito indice che ricordava le zampe di Mister Ugo, mostrò un tronco avvolto nelle fiamme ballerine.
Migliaia di formiche nere stavano per essere arse con tutto il loro apparato urbanistico. E l’uomo stava lì, guardava il loro affannarsi per trovare una via d’uscita, una soluzione ideale, silenzioso dentro al suo pensiero, con una calma disumana. O umana? Ananke era sicura che avrebbe sentito urlare le piccole formiche nere, quando le fiamme le avessero abbracciate per sempre.

Eppure, una parte di Ananke si sentì più calma. O forse si dovrebbe dire più fredda: era come se una mano gelida si fosse poggiata sull’estremità del suo cuore, lasciando però il centro talmente infuocato da sentire un ardore ancora maggiore. Il destino guardava le fiamme che danzavano libere e senza timore di fare la scelta sbagliata, ma erano troppo perfette, troppo normali nel loro ordine naturale. Il caos sarebbe stato meno alienante, e Ananke si sentiva come se dentro la testa ci fosse stata una festa alla quale non potesse parteciparvi.
«Il giorno del giudizio presto arriverà, con le sue fauci di tromba squillerà forte come un tuono di morte oscura, di vita assente. Lo sento come un uragano pieno. Dovrei temerlo, ma non ci riesco. Potrebbe essere domani. O magari adesso.»
Il vecchio seduto davanti al caminetto canticchiò questa cantilena, non sembrava interessato alla presenza di Ananke, ma neppure infastidito.
«So a cosa stai pensando» disse improvvisamente voltandosi a guardare il volto della possibilità «ma, non credi anche tu che le serate trascorse davanti ad un fuoco ballerino e corposo sono perfette, perché la solitudine non possa trovare alloggio dentro al cuore di un essere che vuol trovare pace, nella propria sanguigna malinconia?»
Poi continuò.
«Sono nato in un lontano giorno di primavera» raccontò con voce vibrante «e ho vissuto una vita anonima. Essere contento mi è stato possibile, essere felice? Un’impresa. Non sono nato per essere felice, e non lo dico con tristezza o con pietismo: è semplicemente la verità. Il che però non significa che io sia stato infelice. Dentro al mio petto brucia ancora un fuoco divoratore che però, vista l’età, tengo sottocontrollo, come se io stesso aspettassi il momento opportuno per farlo esplodere. E so che il momento opportuno arriverà molto presto. Ci troviamo tutti oltre lo specchio, inermi in un mondo articolato attraverso una grammatica che sembra fantasiosa, ma che invece segue una sua logica perversa. Abbiamo tutti un senso in questo mondo. Già, ma quale? Andate e moltiplicatevi. Che tristezza! Non credi anche tu? »
Ananke lo ascoltava, ma non riusciva a comprendere dove volesse arrivare con quei discorsi, o dove volesse condurla.
«L’uomo è simile a un pescatore saggio che gettò la sua rete in mare, e dal mare la ritirò carica di pesci piccoli. In mezzo a quelli il saggio pescatore scorse un bel pesce grosso, allora gettò via, in mare, tutti i pesci piccoli e scelse senza sforzo il pesce grande. A te la scelta se essere un pesce piccolo o uno grande. Ma qualunque cosa deciderai di essere sarà quella giusta.»
Ananke riconobbe in quelle parole il Vangelo di San Tommaso.
«Conosci ciò che ti sta davanti, e si manifesterà ciò che ti è nascosto, giacché non vi è nulla di nascosto che non sarà manifestato» terminò la voce della necessità in un sussurro.
«Se si potesse essere come degli eterni Peter Pan» chiosò il vecchio, «forse l’Isola che non c’è sarebbe davvero il luogo in cui sceglierei di vivere una nuova vita, ma persino i sogni non durano mai troppo a lungo.»
Le piccole formiche nere continuavano la loro inutile corsa verso un luogo che potesse rappresentare una via di fuga, di salvezza.

«Ti aspettavo» disse infine l’uomo. «Sapevo che prima o poi saresti venuta a trovarci. Intendo dire trovare noi uomini, qui su questo piccolo pianeta. Ti stai chiedendo perché non sposto il tronco, così da salvare le formiche. E ti stai chiedendo perché il vento dei sospiri ti ha spinto fin qui. Non siamo così diversi sai: noi uomini facciamo ciò che tu ci dici di fare, e tu dai un impulso che non sai che forza avrà nelle vite di ognuno. Eppure, non c’è niente che non sia causa di qualche effetto, non c’è azione o pensiero alcuno che non determinerà qualcos’altro. E tu, cara Ananke, lo sai meglio di chiunque altro. Quindi ti prego di tornare nell’Atman, perché vorrei che il destino di queste mie membra stanche e vecchie fossero portate verso la fine. La morte, a volte, è solo una liberazione.»
«Non posso» rispose quella in un lamento «non posso, vorrei che tutto questo avesse fine. Vorrei non dover essere io colei che osserva la morte delle formiche dall’alto dell’indifferenza.»
«Se questo è quello che pensi» sentenziò il vecchio, «credo sia opportuno farti vedere ancora…»
Le chiese di chiudere gli occhi e di lasciare che il suo pensiero viaggiasse in alto, sempre più alto.
«Perché anche per scendere negli inferi» proferì l’uomo, «è necessario volare in alto.»


Parte seconda

Ananke si ritrovò in un luogo neppure così sconosciuto, anche se non c’era mai stata prima d’ora. Si respirava una pace che non era esterna, ma interna. Il volto della necessità poteva assaporare la sua anima senza per questo sentirne il peso, e il volto della contingenza poteva vibrare libera di non sbagliare. Era bello? Molto più che bello, era energizzante.
«Sei fortunata» dissero degli gnomi «pochi hanno il privilegio di vedere le proprie perplessità di vita scritte nella bianca lavagna del Supremo.»
Al centro di una grossa circonferenza contrassegnata dai numeri primi era possibile vedere gli infiniti mondi, sia quelli che aspettavano di essere attuati come Kalpa, sia i mondi già resi concreti, come quello degli uomini. Ma tutti, creature e vite, erano affannati nel fare qualcosa.
«Non che ci sia un obiettivo da raggiungere» spiegò la giovane creatura celeste che scortava Ananke lungo i corridoi del Palazzo. L’angelo, che non era né biondo né alato, osservava la sua ospite con una certa ironia.
La circonferenza girava nello lo stesso senso di attesa della roulette. Non c’erano i neri o i rossi, ma ogni numero rappresentava un lasso di vita vissuta. Il tempo sembrava interminabile, ma non lo era: ognuna delle essenze che Ananke poteva osservare attraverso quella sfera di cristallo apparteneva ad un numero.
«Qual è il mio numero? » chiese.
«Ananke non ha numero» rispose l’essere angelico lapidario. «Ogni cosa esiste solo se c’è una credenza forte a dargli la vita, ma per fare questo è anche necessario che ogni sogno sia circondato da una luce divina. E da un destino che tesse la tela.»
«Mi stai dicendo che ogni cosa esiste solo nella nostra mente?»
«Tu a cosa vorresti credere? »
«Voglio la verità» rispose il destino.
«Pretendi troppo» replicò l’angelo.
«Mi sembra di essere davanti alla Guernica di Picasso: occhi di qua, bocche di là. Un brutto puzzle che nessuno potrà mai ricomporre.»
«Ti sbagli» spiegò l’essere angelico «ogni tessera è inserita nel posto giusto. Come la Guernica del pittore spagnolo, lui voleva dipingere proprio quello che vedi sulla tela.»
Mentre la vita venuta dall’Atman rifletteva su quelle ultime parole, la circonferenza continuava a ruotare attorno ai numeri. Si fermò per riprendere il fotogramma di un albero che perdeva sangue dalle fronde: i mondi stavano morendo.
«Oggi è una Guernica» sentenziò infine l’angelo, «domani saranno i Girasoli di Van Gogh.»
«Oggi e domani? Pensavo che anche qui, come nell’Atman, il tempo fosse regolato dall’eternità»
«E’ così infatti» spiegò l’essere angelico «ma dobbiamo comunque utilizzare un metro se vogliamo controllare il tutto, e prevedere il futuro»
«Prevedere il futuro? »
«Sì. Esattamente. Ogni era è segnata da un principio e da una fine, e da quassù è possibile anticipare i meccanismi che regoleranno sia il principio che la fine. Ad esempio l’era glaciale. Le cause sono dovute ad un forte cambiamento climatico che ha fatto aumentare l’estensione dei ghiacciai sul globo terrestre. È chiaro che tutto ciò non ha modificato solo il panorama, ma anche la vita: alcune forme di vita hanno cessato di esistere, altre si sono evolute e altre ancora sono potute essere. Anche le ere storiche rispondono al meccanismo della causa e dell’effetto.
«Ogni accadimento non è altro che l’effetto di una causa che a sua volta è stata l’effetto di un’altra causa, e tutto accade perché deve accadere»
«Ci sono guerre che non si possono fermare, e paci che non si possono mantenere. Ma tu, in quanto Ananke, lo sai benissimo»
«E sapere serve?»
L’angelo sorrise.
«No. Il corso degli eventi continua ad andare e a mutare secondo la sua logica. Adesso però affrettati, ti aspettano gli altri. E noi non possiamo mostrarti oltre»
Il portale era già stata aperto, dentro la valigia di domande che Ananke portava ancora con sé, c’era stato poco spazio per le risposte: il viaggio non era ancora finito. E la sua anima non ancora salvata.

“E vidi nella destra di Colui che siede sul trono un libro scritto dentro e sul retro, sigillato con sette sigilli. Vidi poi un angelo possente che proclamava a gran voce: «Chi è degno di aprire il libro rompendone i sigilli?» E nessuno, né in cielo né in terra né sotto terra era capace di aprire il libro e leggervi”.

Qualcuno leggeva a voce alta parole che Ananke riconobbe come appartenere  all’Apocalisse di Giovanni.
La voce baritonale continuava a leggere, e il destino capì che leggeva per le sue orecchie solo quando giunse al paragrafo dei flagelli delle prime quattro trombe.

“Il primo suonò la sua tromba: vi fu grandine con fuoco mescolato a sangue che cadde sulla terra (…). Il secondo angelo suonò la sua tromba: come un enorme massa incandescente cadde nel mare (…). Il terzo angelo suonò la sua tromba: cadde dal cielo una stella enorme, che bruciava come una fiaccola (…). Il quarto angelo suonò la sua tromba: fu colpita la terza parte del sole, la terza parte della luna e la terza parte delle stelle, in modo che s’offuscò la terza parte di loro e così il giorno non brillava per una sua terza parte e lo stesso la notte…”

Ananke però non rimase ad ascoltare la profezia degli altri squilli di tromba, che ancora dovevano suonare. Ma non per paura. Sapeva che tutto ciò che poteva accaderle altro non era che ciò che avrebbe voluto che le accadesse.
Lo zolfo che impregnava la stanza rendeva l’aria irrespirabile. Ananke sapeva benissimo dove si trovava, e si aspettava che un nuovo accompagnatore le facesse strada lungo quegli androni stretti e bui. Il nuovo cicerone non si fece attendere molto: basso e ossuto, camminava ricurvo verso se stesso, ma la cosa che impressionava era il ghigno stampato sul suo viso. Non era una smorfia espressiva: era la forma della sua bocca, come se qualcuno lo avesse disegnato in quel modo solo per fargli dispetto, o magari per divertirsi. In fondo tutto ciò era normale per quel posto. «Evita di fare troppe domande» intimò il diavoletto con voce stridula «non so perché sei qui e non m’interessa, ma voglio che tu sappia che tutto quello che vedrai non è finzione. E sappi che uscire da qui non è un’impresa facile»
«Nessuno mi può trattenere senza la mia volontà» fu la risposta secca della possibilità.
«E chi ha detto che qualcuno ti costringerà a stare?»
Ananke preferì non indagare sul perché di quella risposta sibillina e si concentrò su ciò che l’attendeva in quel mondo. Immaginava che il diavoletto dal ghigno disegnato le mostrasse come le anime dannate vivessero la loro eternità, ma subito si accorse che nell’Inferi non soggiornavano i perduti che il cielo aveva dovuto cedere a causa delle colpe commesse durante la vita terrena, nessuna punizione inflitta, solo delle regole da rispettare: negli Inferi c’erano diverse anime, e non tutte rispondevano all’idea di malvagità.
«Ci sono anche molti curiosi» spiegò il diavoletto «è un modo per mantenere l’equilibrio cosmico, perché bene e male continuino ad osservarsi».
«In realtà» continuò «ognuno conosce sin dalla nascita la sua strada, ognuno di noi conosce il fuoco che gli brucia dentro. Un fuoco che qualche volta divampa e altre, invece, viene raccolto e circoscritto così da non poter più fare del male né agli altri né a se stessi: è solo una questione di scelta».
«Di scelta?» chiese Ananke «pensavo non ci fosse scelta»
«In verità non è proprio una scelta, piuttosto la possibilità di ripercorre il viaggio. Si tratta del ciclo del Sansara» spiegò il piccolo demone. «Le anime che vivono a metà strada tra l’essere un angelo o un demone devono ripercorrere il ciclo vitale, finché non si decidono da che parte stare. Per secoli si è battagliato per decidere a chi spettassero gli indecisi, e non si riusciva mai a trovare una soluzione perché se uno non sa dove andare ha bisogno di una bussola, ma nessuno può dargliela, la deve trovare da solo. Alla fine angeli e diavoli sono giunti ad un accordo, e si è firmato un patto dove si è sottoscritto che le anime indecise debbano ripercorrere il ciclo vitale finché non trovano la loro bussola interiore.»
Il destino e il diavolo ripresero a camminare.
Si stavano addentrando nei meandri più bui e profondi delle gallerie infernali quando Ananke notò un demone, che la osservava attento seduto su di una roccia molto grossa. La guardava con un sorriso beffardo come chi sa di aver vinto una battaglia. Un brivido le percorse la schiena, ma lo guardò a sua volta, con la sua stessa insistenza. Il diavoletto si accorse dello scambio di sguardi.
«Ananke deve tornare nell’Atman» chiosò «è una necessità. Per tutti»
«Parli come l’angelo» commentò la vita venuta dall’Atman.
Ma il diavoletto non rispose, si limitò a condurre Ananke presso un grosso calderone fumante. Il destino scese dunque le scale del pozzo del sansara e si congedò anche da quel mondo.

Ananke aprì gli occhi e si ritrovò nuovamente di fronte al fuoco del camino, e accanto al vecchio.
«Credi davvero di poter scegliere? Credi davvero che startene qui o altrove possa aiutare la nostra causa? Il tuo Sansara lo hai già percorso infinite volte: ogni volta che spingi una vita a vivere stai anche ripercorrendo il viaggio. Eternamente. Ma non ti illudere: tu tesserai sempre il filo di Arianna e noi, staremo sempre dall’altra parte della matassa. Quindi adesso vai e ti prego, non voltarti indietro per nessuna ragione: non posso più stare in questa anticamera, devo trovare la mia bussola e dirigermi nel mondo a me più idoneo»
«Dimmi almeno chi sei» domandò Ananke oramai stanca della sua confusione.
L’uomo le strinse la mano e per la prima volta sorrise «Puoi chiamarmi Nidana»
«Nidana» pensò lei «come la legge della non-conoscenza, degli atti intenzionali, della coscienza individuale, del corpo e dei suoi desideri…»
«E della nascita e della morte» terminò il vecchio «Causa ed effetto sono solo una verità alla quale non possiamo fare a meno di credere. Io sono solo un povero vecchio, e forse ho sbagliato tutto in questa mia patetica vita, ma i miei anni sono la tua eternità e la tua eternità è il perpetuarsi dell’esistenza. Nessuno di noi può cambiare gli eventi e nessuno di noi può essere ciò che non è.»
Il fuoco si spense e Ananke rimase sola ad osservare un camino pieno di brace pallida. Il vecchio aveva ragione: doveva tornare indietro. La voglia di urlare diventava sempre più forte, tanto che anche le persone più sorde avrebbero potuto udirla, ma il destino non avrebbe potuto accettare di essere ascoltato. «Le parole sono solo delle farfalle che oggi sono vita e domani morte. Al loro posto lasciano delle larve che sono speranze, ma anche le larve si trasformeranno in farfalle». E questo non era altro che il ciclo del soffio vitale che si perpetrava sin dall’eternità.
È così Ananke tornò.
Tornò perché ogni vita potesse nascere e morire, tornò perché ogni possibilità potesse trasformarsi in necessità. E tornò perché l’Ananke non può risiedere fuori dell’Atman.
Dopo quel viaggio il destino, sia nel suo volto necessario che in quello della contingenza, non si è più spostato dalla sua dimensione, non che non ne senta il desiderio, ma forse ha compreso che il suo posto è nell’Atman.  Un piccolo occhio nel cielo senza corpo, uno sguardo immobile che però osserva con un’iride colorata d’azzurro.
«Il mio posto è nell’Atman come semplice esistenza evanescente che rende attuali tutte le altre realtà possibili.»


La storia di Ananke finisce qui. Non è stato facile riuscire a raccontare perché anche l’eternità ha il suo prezzo da pagare: i ricordi di chi risiede nell’Atman sono sempre sfumati, talvolta non si è neppure sicuri che ciò che si ricorda è davvero ciò che è accaduto, ciò che si è vissuto. Man mano che il tempo infinito trascorre si possono raccontare solo le sensazioni provate, come in un sogno, come un’impressione onirica.
Un giorno probabilmente Ananke aprirà gli occhi forse ancora addormentati, e si accorgerà che anche lei, anche l’Atman dove risiede da sempre, sono solo dei bizzarri deliri, e che non esistono oltre la loro intima percezione. Proprio come Kalpa. O come il mondo degli uomini, così complesso, così pieno di sé.
Per ora Ananke, regina del soffio vitale, osserva il suo bel quadro. E qualche volta le tinte sono tenui, altre opache, e poi anche fosche e brucianti. Non sa mai che colori utilizzerà per disegnare il destino, sa solo che ogni volta è un urlo straziante. E il grido non è mai udito dagli incubi che lei stessa crea, perché loro dormono beati e pacifici, racchiusi in una profonda letargia di se stessi. Ma almeno uno deve vegliare, almeno una luce deve brillare, affinché il fuoco della vita non cessi mai di ardere, di spegnersi e di bruciare.
Forse il viaggio del destino verso la conoscenza non è terminato, in fondo c’è ancora qualcosa che fa da richiamo. Magari è semplicemente il cicaleccio della piccole formiche nere, la loro richiesta di aiuto. Ma quando i due volti della necessità e della possibilità avranno compreso il vero senso del destino, il perché del loro tessere, anche Ananke forse, potrà finalmente riposarsi all’interno del suo soffio vitale.
Condividi