Racconto...
L’alba non
era ancora sorta, ma Ananke sentiva che il suo lavoro, almeno per quel giorno,
era terminato. Si sentiva stanca. «Non è facile tessere il destino delle altre
vite» pensava stremata. Ma non era solo questo il motivo della sua debolezza.
C’era una parte in lei che sentiva di essere la mano invisibile di un abuso.
«Che cos’è la libertà se ci sono io a decidere quale direzione dare
all’esistenza?»
E Ananke
desiderava che quell’abuso terminasse. Anche se non sapeva neppure lei come avrebbe
potuto porre fine a quel circolo vizioso. Perché anche l’Ananke, in fondo, non
era libera di essere qualcos’altro.
Si adagiò
mesta su una soffice nuvola, ad osservare il via-vai dei mondi, sia quelli
possibili che quelli già esistenti. Tutto dipendeva da lei.
«Una scuola
che non insegni a pensare, che scuola è?»
La domanda
era retorica, e la donna la poneva più a se stessa che non allo stuolo di visi
spenti davanti a lei. «Ricordatevi che siete liberi» continuava, «ma questa
libertà, ragazzi, ve la dovete costruire».
Ananke
conosceva a memoria quel discorso, l’insegnante lo faceva ogni inizio anno, e
ogni volta i suoi allievi sembravano non voler capire che scegliere è un
dovere, e che ogni scelta è frutto di una libertà: gli alunni restavano muti,
mentre tentavano di impressionare sulle loro realtà le parole della
professoressa in cattedra.
Era davvero
così come sosteneva la donna? Se lo chiedevano, probabilmente i ragazzi… Se lo
chiedevano gli occhi che osservavano silenziosi dall’alto della soffice nuvola.
Ananke però non
ne era sicura. Se avesse avuto ragione l’insegnante, allora tutta la sua esistenza
non avrebbe avuto alcun senso.
«Nell’arco di una vita spesso dimenticanze e ricordi non sono
altro che fili sottili che s’intrecciano magicamente, le nostre menti e i
nostri cuori amalgamano le esperienze e le rendono sensazioni concrete, senza
rendersi conto che qualche volta ciò che si ricorda e ciò che si dimentica non
sono realtà vissute, ma solo pensate.»
Chiusa nel suo mondo Ananke aveva molto tempo per riflettere, e
con il trascorrere del tempo, anche la sua eternità iniziava a pesarle. «La
storia che continuo a scrivere nel mio tempo infinito va letta attraverso un’ottica
di chiaroscuri, perché tutto ciò che ognuno di noi pensa o sente sono solo
delle credenze incastonate dentro una bolla di sapone, meravigliosa certo, ma
pur sempre una bolla di sapone: evanescente, svolazzante. Proprio come l’Atman,
assolutamente privo di consistenza, eppure talmente vivo da riuscire a
soffocare il mio spirito. Questo è e sarà per sempre il mio mondo.»
L’Atman, dove
Ananke risiedeva, non era un mondo o uno spazio, piuttosto una sfera concentrica
posta in posizione intermedia tra il mondo celeste e quello degli inferi. Ognuno
con i suoi compiti, ognuno chiuso nella sua stessa percezione, e non era
scritto che le tre dimensioni dovessero conoscersi. Ognuna senza una realtà
effettiva, eppure esistente. Il destino viveva nell’Atman, in perfetta
solitudine. Unico suo compito: creare delle ragnatele di vita.
«Tutti parlano del destino»
commentava tra sé Ananke «ma nessuno sa cos’è. Chi sono? Sarebbe più facile
raccontare chi non sono. Non sono la coscienza. Non sono una vita, anche se
esisto illimitatamente. La mia è un’eternità fradicia di non sensi, perché il
mio vissuto ha senso solo se ci sono le vite non eterne. Io sono l’Ananke, ossia colei
che determina tutti i destini del mondo, colei che osserva ogni passo, ogni
attimo mormorato. E sono sola. Sola nel mio immenso soffio vitale. Non mi è
consentito amare, non mi è consentito odiare, e neppure farmi solleticare dalla
curiosità. Perché questo potrebbe portarmi a deviare il corso degli eventi. Sono
io a tessere il destino dei mondi. E in questo mio fare non c’è volontà: solo
un attualismo mistico.
Chi sono coloro per i quali
tesso il destino? Ebbene, non lo so.
Osservo dal
mio mondo tutte le vite che faccio nascere, e persino quelle che spezzo, so cosa
decideranno durante il corso della loro esistenza. Ma neppure questo mi
consente di capire chi siano. Io per loro sono un occhio nel cielo, e loro per
me sono le membra di un corpo. Non c’è nulla che possa separarci, eppure non ci
incontreremo mai. Qualche volta noto che il loro sguardo è rivolto lontano,
sono i momenti in cui penso che possano vedermi. Ma mi illudo, perché il
destino non può essere visto. Vorrei spiegare che non c’è cattiveria in me, ma
neppure bontà. Il loro successo, così come i loro insuccessi non sono il frutto
di una libertà: è la contingenza che domina il mondo. E io, Ananke sono la regina
di questo regno di carta.»
Il suo vivere
nell’Atman le era sempre apparso un ricordo sfumato, una vita che urlava una
maggiore elevazione di concretezze, così lontane dalla realtà astratta che
aveva fatto di lei l’Ananke. Per questo motivo la mano invisibile del destino
iniziava a desiderare essere qualcos’altro. Chi lo avrebbe mai detto che il fato
si sarebbe stancato di osservare la vita degli altri, e avrebbe anelato a
viverne una sua propria? Probabilmente neppure questo era scritto.
«La voglia di
esistere come vita è così potente da non permettermi di respirare l’aria
dell’Atman». E il desiderio era tanto forte, quanto blanda era la capacità di
comprendere quanto fosse sterile quello stesso desiderio: se l’Ananke fosse
scomparsa, quali altre vite avrebbero potuto attuarsi? Ma ogni pensiero è fugace,
e ogni consapevolezza necessita di un muro sul quale sbattere.
Eppure,
Ananke viveva attraverso la vita degli altri. Era l’insegnante che spiegava il
concetto di libertà ai suoi alunni, era l’adolescente innamorata, l’amante
perduta, aveva attraversato il Rubicone, percorso le fiamme delle rivoluzioni:
non c’era niente che lei non avesse vissuto. Niente che non avesse sentito indispensabile
far accadere.
«Ho superato
esili forzati» rimuginava «allora perché non riesco a superare l’esilio della
mia necessità?»
Ma
indispensabile per cosa, o per chi? La ruota girava secondo una logica
perversa, e nessuno avrebbe potuto fermarla. Neppure il destino.
«Ti è
concessa solo un tipo di conoscenza» Ananke spettinò la sua zazzera argentea e
Mister Ugo, un piccolo e anziano ragno scrivano che dormiva vicino al Libro dei
mutamenti, l’unico testo che il destino avrebbe dovuto conoscere, fu costretto
a mollare la presa sulla ciocca di capelli. «Se continuerai a desiderare
l’indesiderabile finirai col metterti nei guai.»
«Gli umani»
rispose Ananke, «così boriosi della loro natura razionale, mi hanno insegnato
che ogni dovere è vita, e che ogni sentimento è amore, tuttavia non riescono ad
accettarsi e non ho mai capito il motivo che li spinge ad allontanarsi da loro
stessi. Le vite dell’Atman si diversificano attraverso semplici fotogrammi
incorporei, ma gli umani, con i loro molteplici colori e mutamenti, riescono a
creare un’individualità quasi magica, che per nulla al mondo dovrebbe essere
cancellata.» «Il motivo di tanta inutile caparbietà» spiegò Mister Ugo, «è
dovuta al fatto che non sanno di essere dei semplici possibili attuati, e che è
solo una casualità il loro essere determinato. Così testardi e stupidi, continuano
a guardarsi senza mai vedersi.»
«Guarda
l’invisibile e saprai cosa scrivere»
Dove aveva
sentito quella frase? Poi Ananke ricordò. L’aveva pronunciata un personaggio in
una di quelle strane trame, che gli uomini chiamavano film.
«Ci sono
altri mondi, oltre quelli che devono rispondere alla mia necessità» commentò,
«i mondi virtuali, le realtà che gli umano creano: le storie che scrivono o che
impressionano su una pellicola. Sono vere anche quelle vite?»
«No»
rispondeva subito il ragno, «sono finte, virtuali. Non rispondono a nessuna logica.»
«Vedo della
coerenza per la mente che le ha pensate» ribadiva Ananke.
«Non
rispondono alla logica del destino» pressava Mister Ugo.
«In quelle
storie il destino è altro da me, ma questo non significa che sia sbagliato»
«No»
rispondeva il ragno, «non sbagliato, finto. Loro potrebbero anche pensare e
scrivere qualcosa di diverso, ma noi sappiamo che nell’esistenza non c’è
libertà. Tu sei la loro scelta.»
Gli occhi di
Ananke, tuttavia, continuavano a scrutare attentamente ogni piccolo passo di
quell’esistenza alla quale non sarebbe mai appartenuta: voleva conoscere a cosa
dava impulso in ogni stante della sua eternità. Spesso si era chiesta se anche gli
altri esseri avrebbero potuto decidere cosa essere. Si chiedeva se anche
l’Ananke, con la sua ordinata dispersività, potesse essere qualcos’altro da ciò
che era. Ma sapeva che la sua stessa natura non era da lei decisa. E tutto ciò
la allontanava da se stessa.
Fu allora che
Ananke fuggì. Fuggì da se stessa e dalla sua eternità. Fuggì dall’abuso di dare
vita alle vite degli altri. E viaggiò.
Viaggiò nei
diversi mondi che lei stessa aveva determinando semplicemente esistendo. Conobbe
molti esseri, ma di tutti quegli esseri Ananke già sapeva ogni loro pensiero,
ogni loro azione passata e anche quella futura. Il destino li guardava come
solo chi sa. E si annoiava. Perché non vi può essere curiosità di conoscere per
chi conosce già tutto e se sei l’ananke, il destino smette di essere cieco
anche se continua a non vedere. Ananke avrebbe voluto sentire l’esistenza
scorrerle in lei, desiderava poter toccare con mano il futuro che lei stessa
tesseva. Avrebbe dato qualunque cosa pur di vivere liberamente una vita fragile
e puerile. «La mia eternità per un briciolo di vera esistenza: un sorriso per
una lacrima».
Ed era così
forte il suo desiderio, tanto da portarla lontano, sempre più lontano
dall’Atman. Il destino non era ancora pronto per ascoltare il richiamo della
necessità. Così lasciò che un vento di sospiri la trascinasse sempre più lontano
dal suo mondo. E mentre percorreva quel viaggio a ritroso le parve di sentire
le anime del mondo che la scongiuravano di tornare sui suoi passi, di non abbandonarle
bloccate nell’etere. La pregavano di non dimenticarsi chi fosse, la supplicavano
di non smettere di essere l’Ananke. Le sue orecchie, però, preferirono non ascoltare.
«Non so cosa
sono o cosa farò, e tanto meno non riesco ad accettare la mia natura, ma sento
che in fondo la scelta su chi essere o su cosa fare non è poi così importante,
perché il tutto comunque apparterrà al nostro soggettivo sguardo, e niente potrà
cambiare. Molti filosofi hanno cercato l’oggettivazione della realtà, l’aspetto
noumenico dell’esistenza, ma la vita è solo una favola e come tale va vissuta.
Una favola magica dove ci si accontenta d’essere regine almeno per un giorno,
anche se solo di un regno di carta. È davvero ciò che desidero?»
In quel suo
istante di eternità Ananke si rispose di sì, una sentenza che non poteva essere
cambiata perché ogni decisione è presa nel suo istante, e non si può mai
tornare indietro.
Ananke si
lasciò dunque trasportare dai suoi sogni, finché raggiunse la conclusione di
quel capitolo di un libro scritto per caso.
«Ho sentito
un richiamo che mi reclamava, era la voce imperitura di Ananke che troppo
spesso, forse, avevo soffocato disperatamente senza lasciarla respirare.»
Ma solo quando
ogni essere ascolterà la propria voce interna dello spirito di vita non ci sarà
più bisogno di pensare sul perché e sul percome delle cose: già tutto sarà conoscenza.
E Ananke continuava a credere che fosse stato un abuso dare vita alle vite.
«Non voglio
assecondare questo abuso.»
Così man mano
che continuava il suo andare, si rendeva sempre più conto che il cammino che
percorreva era simile a quello di un sonnambulo senza sonno. Vagabondava dentro
un tunnel fosforescente e petroso, in cerca di qualcosa che le avrebbe permesso
di capire perché era così necessario che sostasse nell’Atman.
«Perché devo
essere l’Ananke?»
Mentre si
allontanava chiudendo gli occhi, poteva ancora sentire i versi che l’avevano
iniziato alla vita:
Un uomo solo
a largo
soffia
sfiatato su un mare
in tempesta.
Braccia inesperte si agitano
e il mare si
muove sinuosamente.
Cerca il
tutto
di quel
niente che c’è
di quella
vita mostrata
e mai
completamente data.
Un uomo solo
a largo
soffia
sfiatato su un mare
in tempesta
e muore così,
sommerso
da un’onda
soffiata
con troppo
fiato
Ananke si
rendeva conto che il suo dovere era quello di essere in perfetta simbiosi con
la sua volontà, ma questa scoperta sarebbe avvenuta dopo. Dopo aver percorso
uno strano viaggio, un altro. Un viaggio che la condusse verso il concetto di
possibilità e di necessità.
«Alienarsi
dalla propria essenza di vita é semplice e anche liberatorio a volte, ma
tornare in sé significa rinascere.» Questo pensiero le attraversò la mente
proprio mentre il turbine la sovrastava, spingendola oltre il suo naturale
procedere.
Un vento di
sospiri strazianti spingevano il suo avanzare, era talmente forte che avrebbe
dovuto aggrapparsi in qualche cosa, ma sentiva che le pareti del tunnel pur
essendo petrose erano troppo lisce per fare da appiglio. Le forze la abbandonarono
e scivolò trasportata dal forte vento di sospiri.
Quando Ananke
si svegliò si trovò davanti ad un cartello con su scritto:
BENVENUTI NEL
PAESE DI KALPA
La
possibilità di un mondo
Subito dopo
notò delle case fatte di sabbia rosa che sembravano appartenere ad un quadro
dipinto con pennelli di vita reali. I colori pastello di Kalpa davano la sensazione
di cadere in una profonda serenità, e il via-vai di trovarsi in un allegro
mercato di letizia. Ananke non ebbe modo di conoscere coloro che abitavano
Kalpa, probabilmente perché non era loro possibile vederla. Solo una strana creatura
le si avvicinò: quasi certamente era l’unica in grado di osservare oltre la
possibilità non ancora attuata.
«Tu non sei
una creatura di Kalpa. Da dove vieni?» chiese quella con voce stridula e curiosa.
Ananke la
osservò: non era come gli essere umani, e neppure diversa. La parola simile forse
era comunque la meno indicata perché Tory, quello era il suo nome, non era un
essere umano. Se qualcuno le avesse chiesto di pensarsi, la creatura di Kalpa
avrebbe risposto semplicemente che lei non poteva farlo, perché per pensare è
necessario esistere, e lei non esisteva. Non ancora almeno.
«Mi chiamo
Ananke» rispose il destino «e un vento di sospiri mi ha portato fin qui».
«Cosa vuol
dire essere creature di Kalpa? » chiese ancora.
Tory la
guardò un po’ stupita e poi rispose.
«Siamo dei
creati della Perfezione Necessaria, ossia del tutto che c’è, ma anche di quel
tutto che non c’è. Tu non sei una creatura? »
«Nell’Atman» cercò
di giustificarsi Ananke «è la Vita Spirituale che ha dato l’impulso alle vite,
secondo una necessità totalmente libera, nel senso che ogni vita è libera di
essere la vita che desidera essere.»
«Noi creature
non possiamo decidere cosa essere, ma siamo quello che necessariamente dobbiamo
essere. Non appartiene alla nostra natura scegliere, perché si è sempre ciò che
si deve essere.»
Ci fu una
breve pausa, poi domandò ancora.
«Una vita è
libera anche di non essere vita?»
La risposta
che il destino diede, ancora adesso, riecheggia nelle diverse orbite in cui
risiedono i mondi, perché fu allora che Ananke comprese il vero significato di
ciò che era.
«Nella
singolarità della propria essenza le vite sono libere di non esserlo, ma nel
contesto universale la
Vita Spirituale, dando l’impulso alle vite di essere non ha
dato nessuna possibilità di non essere: ogni vita sente dentro di sé la sua
natura di vita, e anche quando decide di rinunciare a se stessa lo fa sempre
per amore di quella vita che le è stata donata.»
E mentre dava
quella risposta Ananke sapeva che era proprio questo ciò che le era accaduto
quando avevo tentato di rinunciare alla sua vita nell’Atman, per rifugiarsi in
un mondo che non avrebbe mai potuto appartenerle.
«Non mi
sembra sinceramente che ci sia poi tanta differenza tra l’essere una vita che
non può essere libera di non essere vita, ed una creatura che necessariamente
sarà sempre ciò che necessariamente è.»
La
riflessione spontanea di Tory fu come un fulmine a ciel sereno, perché fece
capire ad Ananke che anche le diversità spirituali in fondo erano semplici
apparenze, e che probabilmente uomini, creature e vite appartenevano ad uno
stesso nucleo originario guidato da un bizzarro destino dalle tante mani.
«In fondo io
sono l’Ananke, e chi più di me conosce i fili che manovrano quelle mani?» pensò.
A Kalpa tutto
sembrava essere possibile, la sua stessa esistenza era solo una possibilità. Il
volto della necessità e il volto della possibilità scavavano lentamente nel viso del destino e
Ananke si sentiva soffocare.
«Sento che la
spiritualità dell’Atman continua a richiamarmi a sé»
Ma Ananke non
era ancora pronta per tornare.
Tory si
mostrava allegra, sempre pronta a condurre la sua ospite dentro la realtà di
Kalpa, accompagnandola con il suo frenetico chiacchierio indisciplinato.
«Come
conducono la loro esistenza le creature? » chiese la voce della necessità.
«Ognuno» rispose
Tory «segue i compiti che gli sono stati assegnati. Ad esempio i buoni
compiranno sempre azioni buone, mentre i malvagi sempre azioni non buone.»
Ananke la
guardò sbalordita.
«Fai sembrare determinante
l’essere buoni o l’essere malvagi, come se la tendenza al bene o al male fosse
innata.» commentò la voce della possibilità.
«E non è
forse così? » rispose Tory con semplicità.
«Se una
creatura malvagia volesse essere buona non potrebbe esserlo? O se una creatura
buona venisse tentata dal compiere qualcosa di malvagio, non potrebbe lasciarsi
tentare? »
«Tu non
capisci perché nell’Atman le vite possono decidere di essere buone o cattive,
ma qui a Kalpa nessuno che sia necessariamente malvagio desidererebbe non
esserlo, perché questo comporterebbe una presa di coscienza della sua stessa
natura, come se quest’ultima fosse a lui estranea. Il buono e il malvagio sono
tali solo agli occhi degli altri perché ognuno di noi può essere spettatore
degli altri, ma non di se stesso.»
«Perché non
si può essere spettatori di se stessi?» chiese ancora Ananke, stupita.
«Se così
fosse» spiegò la creatura «ci sarebbe il caos: tutti, infatti, cercherebbero di
sfuggire da se stessi.»
«Forse solo
di migliorarsi…»
Tory rise a
quelle parole.
«Migliorarsi in
che senso? Dovrebbe esistere, o quanto meno si dovrebbe conoscere una
perfezione che fosse altro da quella necessaria, ma questo significherebbe
cercare di raggiungere una pseudo-perfezione. Mi sembra in ogni caso qualcosa
di non fattibile.»
«Quindi» continuò
la voce della contingenza «tu non sapresti dirmi se sei una creatura buona o malvagia».
«L’idea che
ho di me» rispose Tory «é quella di essere una creatura che convive pacificamente
con se stessa. E tu sai rispondere a questa domanda? »
Ananke pensò
attentamente a cosa conosceva di se stessa.
«Io credo di
essere una vita che non sa in definitiva cosa è bene è cosa è male, sono al di
sopra di tutto questo.
«Sì» insistette
l’abitante di Kalpa, «ma mi sapresti dire in senso assoluto che tipo di vita
sei? »
«Temo di no»
chiosò l’altra mesta, «ho solo una vaga percezione dell’ipotetica direzione in
cui la mia libertà mi spingerà.»
«Come vedi» concluse
la creatura «nessuno conosce realmente la sua vera natura perché non è
possibile avere una piena coscienza di se stessi.»
Poi Tory
diede un calcio distratto ad un sassolino, come se volesse allontanare da sé i
cattivi pensieri che l’Ananke le stava sibilando come un diavolo tentatore.
Quando la sua espressione cambiò improvvisamente: un ricordo venuto da lontano
fece capolino sulla sua memoria di creatura.
«Lascia che
ti racconti una storia. Bada è solo una storia, senza senso e senza un perché.
Eppure, è la nostra storia.»
La creatura e
il destino si adagiarono su una roccia, mentre il mare azzurro tentava di arrivare
fino ai loro piedi. Ananke si ritraeva a quel contatto, ma non Tory: lei
lasciava che le onde la accarezzassero.
«Io adoro il
mare» disse con serenità «e se non fossi la creatura che sono, mi piacerebbe
appartenergli. La protagonista della storia che sto per raccontarti ha provato
a cambiare la sua essenza, ma poi è dovuta tornare indietro…»
Tory, senza
saperlo, raccontò la storia del destino di ogni essenza di vita. Raccontò la
storia di Eleni, la ragazza che voleva respirare senza l’ossigeno.
Eleni
era una ragazza come tante altre: semplice e complessa, ambiziosa e silenziosa.
Passava le sue giornate ad ascoltare le onde del mare, e scriveva tutto ciò che
l’azzurra distesa acquosa le mormorava. «Eleni sa parlare al mare» dicevano
tutti. Ma non era esatto: Eleni non parlava al mare, semplicemente lo
ascoltava. Ma quella sera non riusciva a capire le parole: era come se il suo
spirito non riuscisse a liberarsi dai pensieri tanto complessi quanto vuoti, e
così le molteplici ispirazioni vaganti nella sua mente stagnavano in confusioni
sottilmente incomprensibili, come se non volessero farsi scrivere, farsi racchiudere.
La brezza della sera si era fatta più fresca ed Eleni sentiva il suo viso
acceso di un biancore autunnale: se solo avesse potuto liberarsi...
«Già
liberarmi» si continuava a ripetere «ma liberarmi di cosa? »
Tutti i
significati delle cose le sembravano forse troppo stupidi e gretti, eppure in
altri istanti era proprio la sublimità del tutto che l’affascinava, lusingata
quasi di essere una vita. «Una vita con l’animo da artista» le piaceva
sentirselo dire, credere di essere speciale. Ma era davvero così speciale?
Le strade
erano decisamente troppo affollate ed Eleni si sentiva troppo sola dentro per
non desiderare di esserlo anche fuori.
«Solo il mare
può capire i miei abissi, perché anche in lui le profondità del suo blu sono tanto
intense da essergli talvolta insopportabili» pensava.
La sabbia
avrebbe dovuto attendere un inverno intero prima che il sole la riscaldasse, ma
ad Eleni piaceva sentirla fredda: le sembrava più compatta del solito. Ne prese
un pugno e la fece scorrere tra le dita: tanti granellini legati fra loro da
una forza invisibile sembravano giocare, come se si fossero trovati in una
grande giostra dai movimenti lenti e articolati.
«Ci
piacerebbe giocare ancora con te, ma dobbiamo proprio andare. Su forza mettici
giù.»
Due granelli
paffuti provvisti di valigie si piazzarono al centro del palmo della mano di
Eleni, dimenandosi per attirare la sua attenzione.
«Ma chi parla?»
chiese la ragazza stupita.
«Come chi
parla? Noi, guardaci un po’»
«Due granelli
di sabbia che parlano?»
«Perché ti
stupisci, che c’è di tanto strano, su dai che abbiamo fretta»
«Perché avete
le valigie, partite?»
«Secondo te?»
rispose con insolenza il granello che indossava un cappello di paglia «Traslochiamo,
andiamo a stare da Marino: per due granelli anziani come noi è necessaria un
po’ di tranquillità. La spiaggia è diventata davvero invivibile, soprattutto
con l’arrivo dell’estate»
Eleni pensò a
quanto amava camminare a piedi nudi sulla calda sabbia, ma non disse niente:
non si era mai accorta che quel semplice gesto potesse recare fastidio a
qualcuno. Meno che mai alla rena. «Ma la sabbia» considerò « è fatta di granelli…»
«Adriano ed
io preferiamo così, e comunque la decisione è presa» continuò il solito granello.
«Agnese,
perché non fai vedere alla nostra giovane amica il depliant della zona in cui dovremo
trascorrere la nostra vecchiaia?»
Il granello
chiamato Agnese indirizzò un’occhiata torva al granello al suo fianco.
«Adriano» chiosò «non se è il caso» ma poi estrasse dal cappello di paglia un
foglio colorato che porse ad Eleni con non poca soddisfazione.
«Davvero
bello!» considerò Eleni guardando le immagini di una spiaggia chiusa in un’insenatura
naturalistica. «Anche a me piacerebbe vivere in un luogo simile.»
«Perché non
vieni con noi?»chiese il granello chiamato Adriano.
«Ma che dici»
obiettò Agnese «non credo sia possibile, non ha il vestito adatto»
«Sciocchezze!
Sei la solita fissata con la moda»
«Se non sono
di disturbo, mi piacerebbe venire» confermò Eleni con entusiasmo.
«Forza
allora, mettiamoci in viaggio prima che faccia buio» aggiunse Agnese rassegnata.
«Ma c’è un
problema» disse timidamente Eleni «io non so respirare sott’acqua»
«Allora non
farlo. Ti sorprenderai nell’accorgerti che non ne avrai bisogno» le disse dolcemente
Adriano.
Eleni non era
del tutto convinta ma si lasciò guidare dai due granelli.
L’acqua era
fredda e i piedi scalzi di Eleni si ritrassero più volte dal suo tocco, mentre
i due granelli di sabbia furono immediatamente sommersi. Quando il coraggio
prese il sopravvento sui dubbi, Eleni fu catapultata sul mondo marino e si stupì
del fatto che Adriano avesse ragione: non aveva bisogno di respirare, perché
ciò che voleva più di ogni altra cosa era seguire le onde.
Man mano che
si andava più avanti e più nelle profondità, la vegetazione si faceva sempre
più fitta. Ma la presenza più tangibile era la pace, una pace strana,
armoniosamente ondeggiante di musica frusciante.
«Ogni
creatura» spiegò Tory «era ciò che doveva essere. »
All’improvviso
i due granelli si fermarono davanti ad una piccola fessura concentrica.
TOC! TOC!
«Parola
d’ordine!» e apparvero da quella fessura due occhi rossi di pesce.
«NIENTE PESCI
SULLA MIA TAVOLA!» dissero in coro Agnese e Adriano.
«Entrate pure»
disse allora la guardia «Alfredo vi sta aspettando»
«Chi è
Alfredo?» chiese Eleni
«Oh! il
nostro agente immobiliare, un pescepalla un po’ noioso, ma onesto. Eccolo, sta
arrivando» spiegò Adriano.
«Agnese,
Adriano, amici cari, vi stavo aspettando con ansia. Ma che vedo, non sapevo aveste
una figlia!»
«Infatti, non
ne abbiamo, o perlomeno non di quelle dimensioni. Lei è Eleni» rispose un po’
sconcertata Agnese.
«Ah! sì
certo, effettivamente non vi somiglia neanche un po’. Immagino allora che la
nostra Eleni sia venuta per la famosa festa delle sorelle Aragoste»
«La festa
delle sorelle Aragoste?» chiese stupita Eleni.
«Tutti gli
anni le sorelle Aragoste organizzano un ballo per sensibilizzare gli abitanti
di Marino a convivere secondo i precetti della fratellanza. Ci sono giochi, lotterie
e soprattutto tanta buona musica con gli Aquatik, il gruppo rock più in voga
del momento!»
Eleni pensò
che sarebbe stato divertente partecipare.
«Non
mancherò» confermò «Verrete anche voi?» fece rivolgendosi ai due granelli.
«Ma sì, sì,
verremo anche noi» rispose spazientita Agnese «prima però bisognerà trovare un
alloggio anche a te. Alfredo ci pensi tu?»
«Ma certo, ho
proprio un’ostrica per perle in luna di miele che sembra fatta apposta per lei.
Un gioiellino credimi, e visto che è la prima volta che vieni nel nostro mondo
ti faccio un prezzo stracciato: solo un barattolo di esche vive. Me le spedirai
appena tornerai nel tuo mondo.»
Eleni avrebbe
voluto spiegare che non era sicura di tornare nel suo mondo, ma preferì non
dire niente e seguì il pesce palla, sentendosi però una ladra.
L’ostrica era
rosa e bianca. «Abbiamo tolto la perla» spiegò Alfredo «Le sposine vogliono
essere le più belle nel loro giorno di festa, ma come fai a dire ad una perla
cerca di essere brutta?»
«Capisco»
commentò Eleni «ma poi le perle tornano dentro la loro ostrica?»
«Sì, certo»
spiegò il pesce palla «è solo per la notte di nozze, poi tutto torna come deve
essere. »
Non appena
Alfredo la lasciò sola, Eleni si fermò a pensare a tutto quello che le stava
capitando e mentre tentava di trovare una spiegazione razionale, un gambero in
frac entrò senza bussare. Con tanto d’inchino si presentò come Rossano, primo
ministro, tesoriere, scrivano, nonché capitano delle guardie del regno di
Marino. Portava un messaggio del suo superiore: Eleni avrebbe dovuto
presentarsi al cospetto di Marino in
persona.
«Marino
desidera vederla, mi segua»
Dopo qualche
secondo Eleni si trovò davanti ad un enorme castello fatto di sabbia cristallina,
circondato da muscolosi pescespada come guardie di sicurezza. Eleni e Rossano
salirono su una bolla verde che li portò nel piano superiore, dove si trovava
la stanza privata di Marino. Nessun trono regale, nessuno sfarzo, solo una voce
frusciante.
«Qual è lo
scopo della tua visita?» chiese la voce frusciante.
«Non saprei»
rispose timida Eleni «è necessario avere uno scopo per essere in questo mondo?»
«E’
necessario aver uno scopo per essere in qualsiasi mondo» replicò Marino in tono
secco, «quindi è bene che tu trovi il tuo il prima possibile, perché non è naturale
la tua presenza qui. Non saresti dovuta venire. È pericoloso sia per te, che potresti
risvegliarti dall’incantesimo e non riuscire più a tornare indietro, sia per
noi che poi avremmo il compito di riportarti in superficie. E credimi, non è
un’impresa sempre facile riportare in superficie coloro che si perdono.»
Fuori del
castello l’aria di festa era quasi respirabile: colori, grida di gioia e musica
si riflettevano nell’acqua. Sardine in bikini roteavano il loro stretto bacino
per non perdere l’hula-hoop, granchi su biondi cavallucci facevano a gara per
raggiungere il traguardo per primi, e non mancava neppure una piovra vestita di
bianco che vendeva gelati.
«Che te ne
pare? » di nuovo la voce frusciante che le era vicino parlò.
«E’ tutto
meraviglioso, il mare è meraviglioso» rispose Eleni stupita di ciò che vedeva.
«Vorrei poter restare per sempre qui. Sento che è questo il mio mondo»
«Ti sbagli»
sentenziò la voce frusciante, «il tuo posto non può essere qui. Tu non sei come
noi e non lo sarai mai, neppure se ti facessi crescere le branchie potresti
trovare il tuo scopo in questo mondo…»
Come Marino
decretò il suo verdetto Eleni sentì un immediato bisogno di respirare «soffoco,
non respiro... » l’incantesimo si era ormai dissolto: fu costretta a nuotare veloce
verso la superficie.
Tornò in riva,
appesantita dagli abiti fradici si buttò stanca e sfiatata sulla spiaggia. Riprese
un’altra manciata di sabbia, ma nessun granello le parlò.
«Non si può
sognare per due volte di seguito il proprio desiderio e viverlo» pensò ad alta
voce. Eleni si diresse verso casa, in quel mondo nel quale avrebbe trovato il
suo scopo di vita.
Tory tolse i
piedi dall’acqua. «Se hai bisogno dell’ossigeno per vivere, puoi anche pensare
di possedere delle branchie piuttosto che i polmoni, ma non sei libera di non
respirare.»
Ananke aveva
capito cosa voleva dirle la creatura di Kalpa
Ma se il
destino era necessità qual era la necessità di Ananke?
«In ognuno di
noi c’è un po’ di Eleni» disse Tory, «ma ognuno di noi sa che non può essere
ciò non è». Ad ogni modo Ananke doveva
ascoltare prima se stessa per poter dare la risposta alla domanda.
Per tutta la sua
permanenza in quel mondo pitturato solo con colori pastello, Tory fu per Ananke
una guida verso la conoscenza del significato di creatura. In seguito capì che
quel mondo dove era approdata nel tentativo fuggire dall’Atman non era altro
che una possibilità: Kalpa non esisteva nella realtà, ma avrebbe potuto esistere
se la sua dimensione di mondo possibile si fosse resa attuale e concreta. Ananke
iniziò a chiedersi se le creature di quel mondo, che ancora non aveva raggiunto
una posizione determinata nella dimensione del necessario, fossero consapevoli
e coscienti di quel loro non essere ancora. Ma in fondo non aveva
nessun’importanza, perché qualunque fosse stata la risposta, Kalpa e le sue
creature avevano percezione di se stesse come dei reali, e il destino non ritenne
necessario interrompere quel sonno di probabile esistenza.
La vita
dell’Atman andò via dal paese della possibilità senza guardarsi indietro, e
senza conoscere quale destino Ananke avrebbe riservato a Kalpa.
Mentre si
dirigeva verso l’uscita di quel mondo, una cantilena risuonava nella sua mente,
sembrava quasi una predica funerea, o forse era solo una premonizione
ambiguamente sentita:
Un dormire
eterno
un dormire
oscuro
una morte
come veglia
di una notte
che non dorme
percorso di
strade
che non hanno
percorso.
Ma adesso
silenzio
che la notte
vuole dormire
e domani,
domani
tremate
miei piccoli
angeli
tremate
perché là fuori
vi aspetta la
vita
Il viaggio di
Ananke verso la conoscenza di se stessa, però, non terminò con Kalpa. Il destino
continuò a camminare senza una meta precisa, senza un vero perché. Il destino fece
proprio come Eleni: seguì ancora una volta i granelli dei suoi desideri.
Ad attenderla
c’era, come sempre, Mister Ugo.
Scese
lentamente attraverso una delle ciocche argentee di Ananke.
«Il tuo
destino è conoscere solo i mutamenti» disse «ma tu continui ad ostinarti ad
andare a cercare qualcosa che non ti compete. E io sono oramai troppo vecchio
per continuare a seguirti in questo angusto viaggio. Perché anche il mio
destino sei tu a segnarlo, anche se non te sei mai accorta. Guardami e dimmi
cosa vedi»
Ananke vide
un piccolo ragno rugoso che a malapena riusciva a reggersi in quelle sue zampette
smagrite e pelose. Un plaid di lana soffice lo avvolgeva, ma era palese che il
freddo si era impossessato di lui.
«L’unica
certezza che abbiamo» sentenziò con voce rauca il ragno «è il presupposto che
una vita è anche una morte.»
«Sto solo
cercando di capire» piagnucolò Ananke. «Non voglio restare sola, non posso sopportare
anche la sua dipartita. Non posso essere io l’artefice di questo destino. Non voglio…»
Mister Ugo la
guardò sofferente. «Come farti capire che noi siamo solo di passaggio? Come
farti capire che il nostro passaggio dipende da te. E come farti capire che non
sei tu a decidere?»
«Mi aveva
promesso che non mi avrebbe abbandonata» gemette ancora Ananke.
«Non è esatto»
rispose con dolcezza il ragno, «ti avevo promesso che ti sarei stato vicino
finché avresti avuto bisogno di me, ma presto ti accorgerai che i mutamenti sono
vicini.»
Mister Ugo
lasciò i capelli argentei l’indomani, e con la sua morte morì anche una parte
di Ananke.
Una rosa rossa piange di petali perduti,
il vento li sparpaglia
e la spiaggia bianca di mari profondi
li
accoglie profondamente in sé.
Un urlo trafigge il suo silenzio
colmo di piene speranze,
ma il
cielo ascolta chissà perché,
e non desta rumori...
Fu il requiem
che il destino recitò come segno di saluto al suo amico di sempre. Ananke si
abbandonò al suo dolore, alla sua immensa solitudine. Sembrava rapita da
qualche forza fuori di sé. Sentiva che dei cambiamenti nel suo spirito stavano
avvenendo, sentiva che l’Ananke si stava risvegliando con tutta la sua forza. Un
urlo agghiacciante le scoppiò in petto. La libertà, prorompeva dentro sé in
tutta la sua pienezza. Ma non era la libertà, piuttosto il suo essere
necessario che cercava di riportarla indietro.
«Oltre quel
vento di sospiri che mi aveva spinto fuori dell’Atman» pensò Ananke, «forse sono
tornata a casa.»
Ma il cammino
del destino era ancora lungo. Si accorse ben presto che non si trovava dove
invece sarebbe dovuta essere. Dopo un lungo procedere, giunse davanti ad un casolare, apparentemente
disabitato.
Entrò. La
polvere ricopriva il mobilio e le ragnatele si erano impadronite del soffitto.
Solo il fuoco del camino acceso dimostrava che c’era qualcuno. In effetti,
seduto su un divano polveroso e logorato dal tempo vi era un uomo anziano. Se
le rughe rispondessero all’effettiva età così come i cerchi del tronco di un
albero, si sarebbe potuto dire che
l’uomo doveva avere almeno cento anni. Osservava le fiamme, in silenzio e
completamente immobile.
Ananke si
sedette accanto a lui.
«Cosa
osserverà con tanta intensità?» chiese a se stessa, ma il vecchio riuscì a
sentire i suoi pensieri e rispose.
«Il loro
viaggio» e con un ossuto dito indice che ricordava le zampe di Mister Ugo, mostrò
un tronco avvolto nelle fiamme ballerine.
Migliaia di
formiche nere stavano per essere arse con tutto il loro apparato urbanistico. E
l’uomo stava lì, guardava il loro affannarsi per trovare una via d’uscita, una
soluzione ideale, silenzioso dentro al suo pensiero, con una calma disumana. O
umana? Ananke era sicura che avrebbe sentito urlare le piccole formiche nere, quando
le fiamme le avessero abbracciate per sempre.
Eppure, una
parte di Ananke si sentì più calma. O forse si dovrebbe dire più fredda: era come
se una mano gelida si fosse poggiata sull’estremità del suo cuore, lasciando
però il centro talmente infuocato da sentire un ardore ancora maggiore. Il
destino guardava le fiamme che danzavano libere e senza timore di fare la
scelta sbagliata, ma erano troppo perfette, troppo normali nel loro ordine
naturale. Il caos sarebbe stato meno alienante, e Ananke si sentiva come se
dentro la testa ci fosse stata una festa alla quale non potesse parteciparvi.
«Il giorno
del giudizio presto arriverà, con le sue fauci di tromba squillerà forte come
un tuono di morte oscura, di vita assente. Lo sento come un uragano pieno.
Dovrei temerlo, ma non ci riesco. Potrebbe essere domani. O magari adesso.»
Il vecchio
seduto davanti al caminetto canticchiò questa cantilena, non sembrava interessato
alla presenza di Ananke, ma neppure infastidito.
«So a cosa
stai pensando» disse improvvisamente voltandosi a guardare il volto della possibilità
«ma, non credi anche tu che le serate trascorse davanti ad un fuoco ballerino e
corposo sono perfette, perché la solitudine non possa trovare alloggio dentro
al cuore di un essere che vuol trovare pace, nella propria sanguigna malinconia?»
Poi continuò.
«Sono nato in
un lontano giorno di primavera» raccontò con voce vibrante «e ho vissuto una
vita anonima. Essere contento mi è stato possibile, essere felice? Un’impresa.
Non sono nato per essere felice, e non lo dico con tristezza o con pietismo: è
semplicemente la verità. Il che però non significa che io sia stato infelice.
Dentro al mio petto brucia ancora un fuoco divoratore che però, vista l’età,
tengo sottocontrollo, come se io stesso aspettassi il momento opportuno per
farlo esplodere. E so che il momento opportuno arriverà molto presto. Ci
troviamo tutti oltre lo specchio, inermi in un mondo articolato attraverso una
grammatica che sembra fantasiosa, ma che invece segue una sua logica perversa.
Abbiamo tutti un senso in questo mondo. Già, ma quale? Andate e moltiplicatevi.
Che tristezza! Non credi anche tu? »
Ananke lo
ascoltava, ma non riusciva a comprendere dove volesse arrivare con quei discorsi,
o dove volesse condurla.
«L’uomo è
simile a un pescatore saggio che gettò la sua rete in mare, e dal mare la
ritirò carica di pesci piccoli. In mezzo a quelli il saggio pescatore scorse un
bel pesce grosso, allora gettò via, in mare, tutti i pesci piccoli e scelse
senza sforzo il pesce grande. A te la scelta se essere un pesce piccolo o uno
grande. Ma qualunque cosa deciderai di essere sarà quella giusta.»
Ananke
riconobbe in quelle parole il Vangelo di San Tommaso.
«Conosci ciò
che ti sta davanti, e si manifesterà ciò che ti è nascosto, giacché non vi è nulla
di nascosto che non sarà manifestato» terminò la voce della necessità in un
sussurro.
«Se si
potesse essere come degli eterni Peter Pan» chiosò il vecchio, «forse l’Isola
che non c’è sarebbe davvero il luogo in cui sceglierei di vivere una nuova vita,
ma persino i sogni non durano mai troppo a lungo.»
Le piccole
formiche nere continuavano la loro inutile corsa verso un luogo che potesse rappresentare
una via di fuga, di salvezza.
«Ti aspettavo»
disse infine l’uomo. «Sapevo che prima o poi saresti venuta a trovarci. Intendo
dire trovare noi uomini, qui su questo piccolo pianeta. Ti stai chiedendo
perché non sposto il tronco, così da salvare le formiche. E ti stai chiedendo
perché il vento dei sospiri ti ha spinto fin qui. Non siamo così diversi sai:
noi uomini facciamo ciò che tu ci dici di fare, e tu dai un impulso che non sai
che forza avrà nelle vite di ognuno. Eppure, non c’è niente che non sia causa
di qualche effetto, non c’è azione o pensiero alcuno che non determinerà
qualcos’altro. E tu, cara Ananke, lo sai meglio di chiunque altro. Quindi ti
prego di tornare nell’Atman, perché vorrei che il destino di queste mie membra
stanche e vecchie fossero portate verso la fine. La morte, a volte, è solo una
liberazione.»
«Non posso»
rispose quella in un lamento «non posso, vorrei che tutto questo avesse fine.
Vorrei non dover essere io colei che osserva la morte delle formiche dall’alto
dell’indifferenza.»
«Se questo è
quello che pensi» sentenziò il vecchio, «credo sia opportuno farti vedere ancora…»
Le chiese di
chiudere gli occhi e di lasciare che il suo pensiero viaggiasse in alto, sempre
più alto.
«Perché anche
per scendere negli inferi» proferì l’uomo, «è necessario volare in alto.»
Parte seconda
Ananke si
ritrovò in un luogo neppure così sconosciuto, anche se non c’era mai stata prima
d’ora. Si respirava una pace che non era esterna, ma interna. Il volto della
necessità poteva assaporare la sua anima senza per questo sentirne il peso, e
il volto della contingenza poteva vibrare libera di non sbagliare. Era bello?
Molto più che bello, era energizzante.
«Sei
fortunata» dissero degli gnomi «pochi hanno il privilegio di vedere le proprie
perplessità di vita scritte nella bianca lavagna del Supremo.»
Al centro di
una grossa circonferenza contrassegnata dai numeri primi era possibile vedere gli
infiniti mondi, sia quelli che aspettavano di essere attuati come Kalpa, sia i
mondi già resi concreti, come quello degli uomini. Ma tutti, creature e vite,
erano affannati nel fare qualcosa.
«Non che ci
sia un obiettivo da raggiungere» spiegò la giovane creatura celeste che scortava
Ananke lungo i corridoi del Palazzo. L’angelo, che non era né biondo né alato,
osservava la sua ospite con una certa ironia.
La
circonferenza girava nello lo stesso senso di attesa della roulette. Non
c’erano i neri o i rossi, ma ogni numero rappresentava un lasso di vita
vissuta. Il tempo sembrava interminabile, ma non lo era: ognuna delle essenze che
Ananke poteva osservare attraverso quella sfera di cristallo apparteneva ad un
numero.
«Qual è il
mio numero? » chiese.
«Ananke non
ha numero» rispose l’essere angelico lapidario. «Ogni cosa esiste solo se c’è
una credenza forte a dargli la vita, ma per fare questo è anche necessario che
ogni sogno sia circondato da una luce divina. E da un destino che tesse la tela.»
«Mi stai
dicendo che ogni cosa esiste solo nella nostra mente?»
«Tu a cosa
vorresti credere? »
«Voglio la
verità» rispose il destino.
«Pretendi
troppo» replicò l’angelo.
«Mi sembra di
essere davanti alla Guernica di Picasso: occhi di qua, bocche di là. Un brutto
puzzle che nessuno potrà mai ricomporre.»
«Ti sbagli»
spiegò l’essere angelico «ogni tessera è inserita nel posto giusto. Come la Guernica del pittore
spagnolo, lui voleva dipingere proprio quello che vedi sulla tela.»
Mentre la
vita venuta dall’Atman rifletteva su quelle ultime parole, la circonferenza
continuava a ruotare attorno ai numeri. Si fermò per riprendere il fotogramma
di un albero che perdeva sangue dalle fronde: i mondi stavano morendo.
«Oggi è una
Guernica» sentenziò infine l’angelo, «domani saranno i Girasoli di Van Gogh.»
«Oggi e
domani? Pensavo che anche qui, come nell’Atman, il tempo fosse regolato
dall’eternità»
«E’ così
infatti» spiegò l’essere angelico «ma dobbiamo comunque utilizzare un metro se
vogliamo controllare il tutto, e prevedere il futuro»
«Prevedere il
futuro? »
«Sì.
Esattamente. Ogni era è segnata da un principio e da una fine, e da quassù è
possibile anticipare i meccanismi che regoleranno sia il principio che la fine.
Ad esempio l’era glaciale. Le cause sono dovute ad un forte cambiamento climatico
che ha fatto aumentare l’estensione dei ghiacciai sul globo terrestre. È chiaro
che tutto ciò non ha modificato solo il panorama, ma anche la vita: alcune
forme di vita hanno cessato di esistere, altre si sono evolute e altre ancora
sono potute essere. Anche le ere storiche rispondono al meccanismo della causa
e dell’effetto.
«Ogni
accadimento non è altro che l’effetto di una causa che a sua volta è stata
l’effetto di un’altra causa, e tutto accade perché deve accadere»
«Ci sono
guerre che non si possono fermare, e paci che non si possono mantenere. Ma tu,
in quanto Ananke, lo sai benissimo»
«E sapere
serve?»
L’angelo
sorrise.
«No. Il corso
degli eventi continua ad andare e a mutare secondo la sua logica. Adesso però affrettati,
ti aspettano gli altri. E noi non possiamo mostrarti oltre»
Il portale
era già stata aperto, dentro la valigia di domande che Ananke portava ancora
con sé, c’era stato poco spazio per le risposte: il viaggio non era ancora
finito. E la sua anima non ancora salvata.
“E vidi nella destra di Colui che siede sul trono
un libro scritto dentro e sul retro, sigillato con sette sigilli. Vidi poi un
angelo possente che proclamava a gran voce: «Chi è degno di aprire il libro
rompendone i sigilli?» E nessuno, né in cielo né in terra né sotto terra era
capace di aprire il libro e leggervi”.
Qualcuno
leggeva a voce alta parole che Ananke riconobbe come appartenere all’Apocalisse di Giovanni.
La voce
baritonale continuava a leggere, e il destino capì che leggeva per le sue
orecchie solo quando giunse al paragrafo dei flagelli delle prime quattro
trombe.
“Il primo suonò la sua tromba: vi fu grandine con
fuoco mescolato a sangue che cadde sulla terra (…). Il secondo angelo suonò la
sua tromba: come un enorme massa incandescente cadde nel mare (…). Il terzo
angelo suonò la sua tromba: cadde dal cielo una stella enorme, che bruciava
come una fiaccola (…). Il quarto angelo suonò la sua tromba: fu colpita la
terza parte del sole, la terza parte della luna e la terza parte delle stelle,
in modo che s’offuscò la terza parte di loro e così il giorno non brillava per
una sua terza parte e lo stesso la notte…”
Ananke però
non rimase ad ascoltare la profezia degli altri squilli di tromba, che ancora dovevano
suonare. Ma non per paura. Sapeva che tutto ciò che poteva accaderle altro non
era che ciò che avrebbe voluto che le accadesse.
Lo zolfo che
impregnava la stanza rendeva l’aria irrespirabile. Ananke sapeva benissimo dove
si trovava, e si aspettava che un nuovo accompagnatore le facesse strada lungo
quegli androni stretti e bui. Il nuovo cicerone non si fece attendere molto:
basso e ossuto, camminava ricurvo verso se stesso, ma la cosa che impressionava
era il ghigno stampato sul suo viso. Non era una smorfia espressiva: era la
forma della sua bocca, come se qualcuno lo avesse disegnato in quel modo solo
per fargli dispetto, o magari per divertirsi. In fondo tutto ciò era normale
per quel posto. «Evita di fare troppe domande» intimò il diavoletto con voce
stridula «non so perché sei qui e non m’interessa, ma voglio che tu sappia che
tutto quello che vedrai non è finzione. E sappi che uscire da qui non è
un’impresa facile»
«Nessuno mi
può trattenere senza la mia volontà» fu la risposta secca della possibilità.
«E chi ha
detto che qualcuno ti costringerà a stare?»
Ananke
preferì non indagare sul perché di quella risposta sibillina e si concentrò su
ciò che l’attendeva in quel mondo. Immaginava che il diavoletto dal ghigno disegnato
le mostrasse come le anime dannate vivessero la loro eternità, ma subito si accorse
che nell’Inferi non soggiornavano i perduti che il cielo aveva dovuto cedere a
causa delle colpe commesse durante la vita terrena, nessuna punizione inflitta,
solo delle regole da rispettare: negli Inferi c’erano diverse anime, e non
tutte rispondevano all’idea di malvagità.
«Ci sono
anche molti curiosi» spiegò il diavoletto «è un modo per mantenere l’equilibrio
cosmico, perché bene e male continuino ad osservarsi».
«In realtà» continuò «ognuno conosce
sin dalla nascita la sua strada, ognuno di noi conosce il fuoco che gli brucia
dentro. Un fuoco che qualche volta divampa e altre, invece, viene raccolto e
circoscritto così da non poter più fare del male né agli altri né a se stessi:
è solo una questione di scelta».
«Di scelta?» chiese Ananke «pensavo
non ci fosse scelta»
«In verità
non è proprio una scelta, piuttosto la possibilità di ripercorre il viaggio. Si
tratta del ciclo del Sansara» spiegò il piccolo demone. «Le anime che vivono a
metà strada tra l’essere un angelo o un demone devono ripercorrere il ciclo vitale,
finché non si decidono da che parte stare. Per secoli si è battagliato per
decidere a chi spettassero gli indecisi, e non si riusciva mai a trovare una
soluzione perché se uno non sa dove andare ha bisogno di una bussola, ma
nessuno può dargliela, la deve trovare da solo. Alla fine angeli e diavoli sono
giunti ad un accordo, e si è firmato un patto dove si è sottoscritto che le
anime indecise debbano ripercorrere il ciclo vitale finché non trovano la loro
bussola interiore.»
Il destino e
il diavolo ripresero a camminare.
Si stavano
addentrando nei meandri più bui e profondi delle gallerie infernali quando Ananke
notò un demone, che la osservava attento seduto su di una roccia molto grossa. La
guardava con un sorriso beffardo come chi sa di aver vinto una battaglia. Un brivido
le percorse la schiena, ma lo guardò a sua volta, con la sua stessa insistenza.
Il diavoletto si accorse dello scambio di sguardi.
«Ananke deve
tornare nell’Atman» chiosò «è una necessità. Per tutti»
«Parli come
l’angelo» commentò la vita venuta dall’Atman.
Ma il
diavoletto non rispose, si limitò a condurre Ananke presso un grosso calderone
fumante. Il destino scese dunque le scale del pozzo del sansara e si congedò
anche da quel mondo.
Ananke aprì
gli occhi e si ritrovò nuovamente di fronte al fuoco del camino, e accanto al
vecchio.
«Credi
davvero di poter scegliere? Credi davvero che startene qui o altrove possa
aiutare la nostra causa? Il tuo Sansara lo hai già percorso infinite volte:
ogni volta che spingi una vita a vivere stai anche ripercorrendo il viaggio.
Eternamente. Ma non ti illudere: tu tesserai sempre il filo di Arianna e noi,
staremo sempre dall’altra parte della matassa. Quindi adesso vai e ti prego,
non voltarti indietro per nessuna ragione: non posso più stare in questa anticamera,
devo trovare la mia bussola e dirigermi nel mondo a me più idoneo»
«Dimmi almeno
chi sei» domandò Ananke oramai stanca della sua confusione.
L’uomo le strinse
la mano e per la prima volta sorrise «Puoi chiamarmi Nidana»
«Nidana»
pensò lei «come la legge della non-conoscenza, degli atti intenzionali, della coscienza
individuale, del corpo e dei suoi desideri…»
«E della
nascita e della morte» terminò il vecchio «Causa ed effetto sono solo una
verità alla quale non possiamo fare a meno di credere. Io sono solo un povero
vecchio, e forse ho sbagliato tutto in questa mia patetica vita, ma i miei anni
sono la tua eternità e la tua eternità è il perpetuarsi dell’esistenza. Nessuno
di noi può cambiare gli eventi e nessuno di noi può essere ciò che non è.»
Il fuoco si
spense e Ananke rimase sola ad osservare un camino pieno di brace pallida. Il
vecchio aveva ragione: doveva tornare indietro. La voglia di urlare diventava
sempre più forte, tanto che anche le persone più sorde avrebbero potuto udirla,
ma il destino non avrebbe potuto accettare di essere ascoltato. «Le parole sono
solo delle farfalle che oggi sono vita e domani morte. Al loro posto lasciano
delle larve che sono speranze, ma anche le larve si trasformeranno in farfalle».
E questo non era altro che il ciclo del soffio vitale che si perpetrava sin
dall’eternità.
È così Ananke
tornò.
Tornò perché
ogni vita potesse nascere e morire, tornò perché ogni possibilità potesse trasformarsi
in necessità. E tornò perché l’Ananke non può risiedere fuori dell’Atman.
Dopo quel
viaggio il destino, sia nel suo volto necessario che in quello della
contingenza, non si è più spostato dalla sua dimensione, non che non ne senta
il desiderio, ma forse ha compreso che il suo posto è nell’Atman. Un piccolo occhio nel cielo senza corpo, uno
sguardo immobile che però osserva con un’iride colorata d’azzurro.
«Il mio posto
è nell’Atman come semplice esistenza evanescente che rende attuali tutte le
altre realtà possibili.»
La storia di
Ananke finisce qui. Non è stato facile riuscire a raccontare perché anche
l’eternità ha il suo prezzo da pagare: i ricordi di chi risiede nell’Atman sono
sempre sfumati, talvolta non si è neppure sicuri che ciò che si ricorda è
davvero ciò che è accaduto, ciò che si è vissuto. Man mano che il tempo
infinito trascorre si possono raccontare solo le sensazioni provate, come in un
sogno, come un’impressione onirica.
Un giorno
probabilmente Ananke aprirà gli occhi forse ancora addormentati, e si accorgerà
che anche lei, anche l’Atman dove risiede da sempre, sono solo dei bizzarri deliri,
e che non esistono oltre la loro intima percezione. Proprio come Kalpa. O come
il mondo degli uomini, così complesso, così pieno di sé.
Per ora
Ananke, regina del soffio vitale, osserva il suo bel quadro. E qualche volta le
tinte sono tenui, altre opache, e poi anche fosche e brucianti. Non sa mai che
colori utilizzerà per disegnare il destino, sa solo che ogni volta è un urlo
straziante. E il grido non è mai udito dagli incubi che lei stessa crea, perché
loro dormono beati e pacifici, racchiusi in una profonda letargia di se stessi.
Ma almeno uno deve vegliare, almeno una luce deve brillare, affinché il fuoco
della vita non cessi mai di ardere, di spegnersi e di bruciare.
Forse il
viaggio del destino verso la conoscenza non è terminato, in fondo c’è ancora qualcosa
che fa da richiamo. Magari è semplicemente il cicaleccio della piccole formiche
nere, la loro richiesta di aiuto. Ma quando i due volti della necessità e della
possibilità avranno compreso il vero senso del destino, il perché del loro
tessere, anche Ananke forse, potrà finalmente riposarsi all’interno del suo
soffio vitale.
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