L’altra mattina un’amica mi ha chiesto se ritenevo possibile l’amore eterno. Le questioni d’amore hanno sempre il loro fascino si sa, probabilmente perché non ci sono mai delle vere risposte: ognuno dice la sua in base alle proprie esperienze o anche in base alle esperienze altrui.
L’amore è eterno finché dura, recitava il titolo di un film di Carlo Verdone e, al di là della battuta, credo che la verità di questa affermazione si trovi in mezzo tra l’eternità di un battito di ciglia e quell’idea di amore che ci ostiniamo romanticamente e acriticamente a voler accettare. Perché credere che al mondo ci sia qualcosa di eterno e di duraturo (là dove le uniche cose che non marciscono sono i surgelati che ci salvano la sera quando, stanche dal lavoro, ci accorgiamo che dentro la dispensa non abbiamo assolutamente nulla e quelle poche cibarie sparse nel frigo sono oramai scadute), è catartico, necessario per prendere sonno, opportuno per iniziare col sorriso pieno di speranza un nuovo giorno. Perché è l’amore che ci permette di sognare… Già nel miei scritti presenti in questo blog, “L’amore come collante sociale, l’eros come controllo sociale, e in “Masturbazioni sociali” ho cercato di analizzare cosa s’intenda per innamoramento. Da un punto di vista sociale è chiaro che quando si parla di amore s’interpreta la vita di coppia in particolare e la condivisione in generale, ma da un punto di vista spiccatamente neuronale si tratta solo di sinapsi e amigdala, neuroni e dosaggi chimici dei vari ormoni. E se la neuroscienza non fa sognare, la sociologia dell’amore dice che amare è dare più che ricevere, e lo è sia che si tratti di philia o di agapè, sia che si tratti di eros. In poche parole amare significa condividere, possedere insieme e se vogliamo continuare con le speculazioni etimologiche potremmo dire che amare significa dare qualcosa di nostro a qualcun altro.