Cos'è l'amore? La domanda potrebbe sembrare
retorica, o quanto meno la risposta potrebbe apparire scontata. In effetti,
tutti sembrano avere una risposta, più o meno plausibile su cosa sia l'amore.
«Volontaria follia, piacevol male,
stanco riposo, utilità nocente,
disperato sperar, morir vitale,
temerario dolor, riso dolente;
un vetro forte, una adamente frale,
un'arsura gelata, un gelo ardente,
di discordie concordi abisso eterno,
paradiso infernal, celeste inferno!»
Giambattista Marino, nel poema Adone,
descrive l'amore come un sentimento contrastato e contraddittorio, dove gioie e
dolori si avvicendano costantemente nell'innamorato che, in preda a questo
sentimento inarticolato, non può che soccombere. E nel suo soccombere vive.
Sul tema d'amore vi è un'infinità di letteratura,
perché tutti hanno amato e tutti prima o poi ameranno. E questo farebbe di
ognuno di noi degli esperti in materia. In realtà, se l'uomo avesse dato la
definizione esatta su cosa sia l'amore, l'argomento sarebbe già totalmente
esaurito e parlarne ancora sarebbe quanto meno inutile. Tuttavia, come scrisse
Ninon de Lenclose nella Lettera al marchese di Sevigné: «L'amore è la
commedia in cui gli atti sono più corti e gli intermezzi più lunghi». Questo
significa che i sospiri d'amore saranno sempre più pieni delle parole e i non
detti più ricchi di patos dei dialoghi. E questo vuol dire che, nonostante i
fiumi di poesie e di saggi, non si riuscirà mai a dare un senso a questo
sentimento che regge l'azione dell'uomo. Sia in un senso positivo che un senso
negativo. Tuttavia, mi sia concessa questa digressione assolutamente personale,
l'impossibilità di dare una definizione cogente e perdurante non può che essere un bene, perché in una
società permeata da un neopositivo e da un tecnicismo esasperato, non resta che
un unico mistero: l'amore.
Ma l'amore è davvero un sentimento? O piuttosto un
composto chimico?
Negli ultimi anni le neuroscienze hanno tentato di
rispondere in modo totalmente scientifico alla domanda che ci siamo posti
all'inizio di questa introduzione. In un
articolo apparso sul Corriere della sera nel 2002 si citava un saggio
della dottoressa Donatella Marazziti intitolato La natura dell'amore,
edito da Rizzoli, in cui si sosteneva che l'amore altro non è che una questione
chimica. La psichiatra sarebbe giunta a tale conclusione attraverso un'indagine
sul campo, analizzando i cosiddetti casi di cecità affettiva. La Marazziti, nel
suo saggio, ipotizza una rete di sottotracce che, passando per l'amigdala e i
lobi frontali, ossitocina e serotonina, ippocampo e corteccia, finiscono per
delineare il “ritratto” biologico, l' interfaccia corporea dell'amore. Non solo. La psichiatra annovera tra le
patologie dell'amore l'incapacità o la paura di innamorarsi che, evidentemente
non sono causate solo da un vissuto infantile disastroso o da una traumatica
delusione, ossia da quell'interfaccia emotiva e quindi psicoanalitica, ma anche da un'amigdala mal funzionante o su
una scarsa fornitura di dopamina. Il professor Gianluigi Gessa dell'Università
di Cagliari, noto ricercatore, ha battezzato questa sostanza chimica “la benzina
del desiderio” perché sarebbe proprio la dopamina a far scoccare la scintilla
dell'innamoramento. A prova di quanto detto vi sarebbero gli studi eseguiti
a persone con lesioni al nucleo
cerebrale dell'amigdala[1],
i quali presentavano “cecità affettiva”, una sorta di atarassia che preclude al
malato un'incapacità emozionale: caso estremo, un paziente che restò
impassibile alla notizia della morte improvvisa di entrambi i genitori. Chi
soffre di depressione lamenta spesso la perduta capacità di provare sentimenti
e, in questi malati, alterato e carente è soprattutto il sistema della
serotonina, la sostanza o neurotrasmettitore chimico che più influenza
l'amigdala. Ripristinata con gli psicofarmaci la corretta biochimica cerebrale
fa sparire la depressione e fa ricomparire la capacità d'amare. Le prove sono
ovviamente tutte indirette perché medici e scienziati scoprono i meccanismi
interni del corpo, e quindi possono ipotizzare le strutture cosiddette normali,
attraverso le malattie, ossia attraverso i mal funzionamenti della macchina
umana. Quanto all'innamoramento che può scatenare disturbi
ossessivo-compulsivo, depressivo e altri ancora, la spiegazione, già ipotizzata
peraltro da Michael Liebowitz nel saggio “La chimica dell'amore” (1983),
sarebbe spiegata attraverso la liberazione, da parte del cervello, di sostanze
simili all'anfetamina. Esplosione che, in un soggetto predisposto a
vulnerabilità più o meno latenti, o se capitano in periodi di forte stress,
potrebbero causare disturbi. La
Marazziti è infatti partita da questa analisi: «Da innamorati, siamo invasi dal
pensiero ossessivo dell'altro, allora mi sono chiesta se a livello biochimico
si riscontrino somiglianze con quanti soffrono di disturbo ossessivo. Ho
analizzato un certo numero di volontari appena innamoratisi e un ugual numero
di malati, e ho riscontrato nei due gruppi una analoga riduzione del sistema
serotoninergico». Insomma, dopo quest'analisi scientifica di poetico sull'amore
forse non resta molto. Eppure, le teorie delle neuroscienze restano
estremamente affascinanti anche da un punto di vista più spiccatamente
sociologico perché, seguendo quest'ottica, aumenterebbero le variabili
dipendenti, ossia quelle che possono essere osservabili da campione,
nell'interazione tra i diversi individui. Interazione che, per dirla come Durkheim,
determinano i fatti sociali.
Secondo il sociologo Francesco Alberoni in Ti
amo sostiene che ci si innamora quando si è pronti a mutare, a lasciare
un'esperienza già fatta per abbracciare invece quello slancio vitale che
porterebbe poi ad una nuova esplorazione. Insomma per cambiare vita. Ecco
perché ci sono periodi in cui innamorarsi è difficile: sono appunto quei
momenti in cui, per dirla come la Marazziti, la nostra amigdala non
funzionerebbe come dovrebbe.
Alberoni, però, alle analisi neuroscientifiche
preferisce quelle più affini alla psicoanalisi, seppur con notevoli differenze[2],
e spiega che gli individui si legano a coloro che:
- che danno
piacere. Questo è un tipo di attaccamento fragile perché s'interromperebbe
quando il piacere cessa;
- che sfuggono. Si
tratta del meccanismo della perdita: in pratica ci si lega alle persone
che sfuggono o che ci vengono portate via;
- che piacciono agli altri. È il meccanismo
dell'indicazione: si tende a desiderare ciò che il gruppo indica come
attraente e dotato di valore;
- innamoramento
vero e proprio, ossia il meccanismo dello stato nascente. In questa
fase il sociologo interpreta il desiderio di cambiare e di abbandono con
una forma di rinascita attraverso la fusione con l'altro.
L'innamoramento per
Alberoni è un'esperienza straordinaria, un risveglio e non una regressione o
una nevrosi, piuttosto una sorta di big ben emozionale.
«Il modo corretto di analizzarlo (l'individuo
innamorato, ndr) non è quello della psicologia individuale, ma della
sociologia. Anzi, in modo particolare, della sociologia dei movimenti
collettivi»[3]. E
secondo il sociologo italiano nessuna collettività può nascere se gli individui
non rinascono a loro volta[4].
Ma secondo Freud la storia dell'uomo è la storia
della sua repressione. In Al di là del principio e del piacere (1920) il
padre della psicoanalisi formula la
teoria delle pulsioni basata sul conflitto tra pulsioni di vita e pulsioni di
morte: eros, inteso come istinti di vita, e thanatos, interpretato come istinto
di morte. Il primo si esprimerebbe
nell'amore, nella creatività e nella costruttività; il secondo nell'odio e
nella distruzione.
Nel saggio intitolato Il disagio della civiltà
umana Freud si porrà il problema del destino della specie umana sostenendo
che gli uomini, estendendo il loro potere sulle forze naturali e «giovandosi di esse sarebbe facile
sterminarsi a vicenda, fino all'ultimo uomo. L'Eros eterno, farà uno sforzo per
affermarsi nella lotta con il suo avversario altrettanto immortale. Ma chi può
prevedere se avrà successo e quale sarà l'esito?» Ecco perché per Freud l'uomo rinuncia a molta
sua felicità per rendere possibile una vita associata, la civiltà, non
autodistruttiva. In pratica l'umanità sacrifica il Principio del
piacere in nome del Principio
della realtà, reprimendo in questo modo i propri istinti, le proprie
pulsioni e, in sostituzione di questi ultimi, sublimerebbe attraverso tutte
quelle attività che sono comunemente considerate frutto della civiltà (arte,
cultura, lavoro, ecc.). La società impone, quindi, una modifica dell'essenza
degli istinti, dirottandoli dalla sfera sessuale a quella del lavoro. Ed è qui
che Herbert Marcuse, nel saggio Eros e civiltà, pone la sua obiezione in questi termini: «il
processo repressivo descritto da Freud è un fatto intrinseco alla natura di
ogni società, o si tratta di un fenomeno transitorio in quanto frutto di
un'organizzazione irrazionale delle forme di convivenza tra gli uomini?» La
risposta che Marcuse fornisce a questa domanda è in aperto contrasto con la tesi
di Freud: «la scarsità di beni per cui sono necessari meccanismi quali la
divisione del lavoro e il differimento dei bisogni (in una parola, la
repressione) è frutto di una organizzazione irrazionale della società, nella
quale i beni sono distribuiti in misura iniqua. Freud ha scambiato per
caratteristica generale un assetto transitorio che configura un dominio attuato
attraverso forme di violenza in un primo momento e, successivamente, con
l'amministrazione totale della società».
Il dualismo degli istinti però, secondo Marcuse, è solo apparente. Se
entrambi infatti hanno una natura conservatrice comune e gravitano entrambi
verso il Nirvana, ne consegue che «l'istinto di morte è distruttività non fine
a se stessa, ma presente solo per liberare da una tensione. La discesa verso la
morte è una fuga inconscia dal dolore e dal bisogno. E' un'espressione
dell'eterna lotta contro la sofferenza e la repressione». Uno stravolgimento al
pensiero freudiano, ma che serve a Marcuse per trovare il modo di fondare l'utopia
di una radicale trasformazione dell'uomo e del mondo su di una base
psicobiologica. Solo questa base infatti può dare ad essa un carattere di
necessità. La teoria di Freud è suggestiva perché comporta l'attribuzione alla
natura umana di istinti di vita la cui realizzazione piena può portare alla
felicità. Essa però, secondo Marcuse, va depurata dell'antitesi tra Eros e
Thanatos. Quest'ultimo infatti, si pone come ostacolo permanente sulla via di
un'utopia che associa alla felicità individuale la felicità di tutti.
Riconducendolo ad una protesta contro la sofferenza e la repressione, l'istinto
di morte viene sdrammatizzato e negato. La realizzazione di una vita
all'insegna dell'Eros, di una vita dunque liberata dalla repressione e aperta
alla felicità, nella misura in cui realizza quella protesta, la azzera.
L'utopia della felicità ha dunque, secondo Marcuse, un fondamento
psicobiologico nella rivendicazione intrinseca all'inconscio di una vita
incentrata sul principio del piacere. Il conflitto tra il principio del piacere
e il principio di realtà, che Freud assume come fondamento del passaggio dallo
stato di natura a quello di cultura, e che comporta inesorabilmente la
frustrazione del desiderio illimitato, è assunto da Marcuse come un conflitto
non naturale bensì storico: «un'organizzazione repressiva degli istinti si
trova alla base di tutte le forme storiche del principio della realtà nella
società civile».
La critica centrale che Marcuse muove al padre
della psicoanalisi è quella di aver identificato il principio della realtà con
una particolare forma storica e di repressione, prevalente nella società
borghese. La repressione è per filosofo della Scuola di Francoforte connessa
alla sostituzione del principio del piacere col principio di realtà,
ma sottolinea la presenza di un altro
livello attraverso il quale la società opprime l'essere umano, e cioè il
cosiddetto principio di prestazione. Là
dove per prestazione si intende ciò che “si deve fare” a causa del proprio
ruolo nella società, quindi la repressione attuata attraverso questo principio
è strettamente legata alla stratificazione sociale e alla divisione del lavoro.
In altre parole la prestazione è ciò che l'individuo deve fornire alla società,
ed è ciò che la società si aspetta dall'individuo. Questa ulteriore repressione
non avviene solamente attraverso la funzione che la persona svolge, ma è
veicolata anche dalla famiglia patriarcale e dalla direzione univoca imposta
alla sessualità, ovvero la genitalità, intesa come processo di procreazione piuttosto
che di piacere fine a se stesso.
«Il principio della realtà, cioè la repressione, si
configura anzitutto come obbligo di produrre, di lavorare: però questo lavoro
non è repressivo in quanto tale, ma in quanto lavoro alienato»[5].
È evidente in questo passaggio le forti influenze marxiane sul concetto di
alienazione, perché l'alienazione formulata da Marx è appunto l'impossibilità
di essere liberi, di poter prendere delle decisioni sul proprio futuro, è
insomma una forma di repressione che il capitalista impone all'operaio.
In questa opera Marcuse, di fatto, ha rovesciato le
teorie freudiane affermando, il
contrario di quanto lo stesso Freud aveva teorizzato in un momento forse più
filosofico che psicoterapeutico, che è possibile una società non repressiva. Il
sociologo tedesco era d'accordo con Freud nello scorgere nella repressione il
prezzo da pagare alla civilizzazione ma, a differenza dello psicologo
austriaco, affermava che non è la civiltà in quanto civiltà a risultare
repressiva, a richiedere una costante repressione istintuale, ma quel tipo
particolare di civiltà impostasi in Europa e in America: la civiltà autoritaria
e borghese. In sostanza, diceva Marcuse, questa società non si è limitata a richiedere il minimo della repressione
istintuale richiesto dalla convivenza civile, ma ha preteso un surplus
repressivo per motivi che hanno nulla a che vedere con la natura dell'uomo e la
convivenza civile stessa, ma sono tutti riportabili al sistema sociale,
politico ed economico, oltre che a convinzioni ideologiche[6].
La repressione è l'unico modo di garantire l'efficienza, quel principio di prestazione che è alla base
dell'efficientismo capitalistico. La genitalizzazione monogamica, la famiglia,
sono istanze funzionali alla produzione e alla riproduzione, abiti etici
imposti dal regime alla gente. In questa chiave, afferma Marcuse:« ... il fine
della vita, anziché essere quello di godere e far godere il nostro stare al
mondo, a titolo di liberi soggetti-oggetti libidici, è storicamente divenuto il
lavoro e la fatica, che gli individui hanno finito per accettare come qualcosa
di "naturale", o come la "giusta" punizione per qualche
colpa commessa, "introiettando" in tal modo la repressione, secondo
il principio della cosiddetta "autorepressione dell'individuo
represso"». Tuttavia – sostiene Marcuse - la civiltà della prestazione non
è riuscita a far tacere completamente l'impulso primordiale verso il piacere,
la cui memoria è conservata nell'inconscio e nelle sue fantasie: «La fantasia
ha una funzione d'importanza decisiva nella struttura psichica totale: essa
collega gli strati più profondi dell'inconscio con i prodotti più alti della
coscienza (arte), il sogno con la realtà; conserva gli archetipi della specie,
le idee eterne ma represse della memoria collettiva e individuale, le immagini
represse e ostracizzate della libertà». Il tutto, al di là del fatto che nella
pratica quotidiana secondo Marcuse, è già operante un maggior uso della
sensibilità, una tendenza a vivere la vita come gioco, una spinta affinché le
forze dell'amore, dell'Eros, si impongano sull'odio, su Thanatos, le forze
negative e gli istinti di morte, esiste nel sistema stesso la possibilità di
una riduzione dei tempi di lavoro, liberando tempo disponibile per una vita più
gradevole. In tale contesto, è evidente che l'atmosfera ottimistica di Eros e civiltà[7]
è nettamente in contrasto con le visioni pessimistiche di Horkheimer e Adorno,
per i quali la perdita di autenticità non è certamente riducibile a tempo,
denaro, repressione della libido, ma a questioni più profonde e radicali.
D'altro canto lo stesso Freud aveva definito la felicità come “soddisfazione
ritardata di un desiderio preistorico”, e questa sarebbe la ragione per cui la
ricchezza porterebbe poca felicità, proprio perché il denaro non è un oggetto
di desiderio durante l'infanzia. In effetti, dopo Eros e civiltà, anche Marcuse avrà un ripensamento e, soprattutto
nel L'uomo ad una dimensione,
arriverà a denunciare come falsa la liberazione sessuale, contrapponendovi una
liberazione dell'amore ancora tutta da venire e persino da capire.
La tesi del saggio di Marcuse è che l'uomo moderno
si è dessessualizzato, ha in pratica posto la sublimazione dei propri istinti
sessuali sul rapporto di produzione, un rapporto che, marxianamente inteso, è
alienato e che porta alla repressione istintuale e della libido. «Quando, nelle
società più o meno opulente, la produttività ha raggiunto un livello al quale
le masse partecipano ai suoi vantaggi, per cui l'opposizione è tenuta,
efficacemente e democraticamente, sotto controllo, allora anche il conflitto
tra padrone e schiavo è efficacemente tenuto sotto controllo»[8].
Secondo Marcuse nella società moderna il controllo della sessualità fomenta la
repressione umana. L'umanità, tuttavia, non s'accorge di essere repressa perché
ha annullato il principio del piacere all'interno del principio di prestazione.
L'ottimismo in Eros e civiltà sta nel fatto che l'uomo conserva tracce
dei primordiali istinti attraverso la fantasia e che attraverso «la liberazione
delle tendenze istintuali alla pace e alla serenità, all'appagamento dell'Eros
“asociale” ed autonomo, presuppone la liberazione dall'opulenza repressiva:
l'inversione della direzione di marcia del progresso»[9].
Con Marcuse il concetto d'amore presupponeva una
non differenza sostanziale con il concetto di eros. Luc Boltanski in Stati
di pace. Una sociologia dell'amore rivendica invece una diversità
funzionale tra i due concetti. In particolare Boltanski sostiene la possibilità
di creare una società in cui l'agape, ripulita dalle speculazioni
spiccatamente teologiche, possa agire come forza propulsiva nell'interazione
degli individui.
Il programma teorico del sociologo francese è il
tentativo di realizzare una sociologia della morale, intesa questa come
riflessione in cui è possibile analizzare e studiare l'azione degli individui
all'interno delle società, le ragioni che spingono gli stessi al loro agire e
le esigenze morali che questi si danno o vorrebbero darsi. In Stati di pace
Boltanski presenta dunque la sua analisi della morale entro un percorso di
studi complesso e articolato tratto dalla sua opera più completa L’amour et
la justice comme compétences, di cui il saggio che prenderemo in
considerazione ne rappresenta solo un capitolo. L'autore si avvicina all'analisi
della morale concordando con Durkheim sulla sua necessaria presenza nella vita
sociale ma, nel suo approccio, si allontana fin dall'inizio dalla relazione
durkheimiana tra società e morale. Boltanski, infatti, cerca di presentare,
all'interno di uno schema di classificazione delle azioni, una dimensione della
morale fondata sul concetto di amore cristiano, ossia l'agape, senza
legarla alla dimensione sociale come aveva fatto Durkheim. Per Boltanski la
società non è la fonte esclusiva del comportamento morale e non ne è l'oggetto:
al contrario, ritiene che la dimensione morale non abbia fondamenti, ma si fondi piuttosto sull'azione quotidiana
che si fa carico dell'altro. In tal modo il giudizio morale non è il riflesso
di una sovrastruttura né di una società sui generis, bensì è un’espressione
della condizione antropologica legata, ancora prima che alla filosofia o alla
teologia, all'esperienza quotidiana dell’essere umano. Fondamentali, dunque,
nello studio morale di Boltanski sono la dimensione pratica (intesa sia come
azione che come quotidianità) e relazionale: la morale deve essere studiata
come azione, come questione pratica legata alla complessità della vita di ogni
giorno, cercando di porre così in rilievo le pratiche dei soggetti che quotidianamente
costruiscono e negoziano i significati di riferimento delle proprie azioni,
anche quelle morali.
In Stati di pace assume una posizione
centrale proprio questa discussione pratica, nella quale vengono definiti i
punti di vista morali degli attori sociali e le argomentazioni valide a
sostenerli. L’approccio di Boltanski è dunque un approccio costruzionista
(ossia i significati sociali sono esito di una continua negoziazione) ispirato
alla lunga tradizione fenomenologica francese che va da Focault fino a
Bourdieu.
Nei primi capitoli del saggio Boltanski propone il
contesto teorico e analitico più ampio in cui si inserisce lo studio della
morale come particolare tipo di azione nelle relazioni umane, come forma in
pratica dell'interagire umano.
Per riferirsi a queste forme del vivere con gli altri, Boltanski parla di
regime d’azione distinguendo tra regimi di disputa e regimi di pace[10].
Nei primi egli suppone esista una discussione tra
le diverse prospettive degli attori. Nei regimi di disputa le persone «motivano
la propria azione, mettono in opera il proprio senso di giustizia, avanzano
delle giustificazioni». Ai regimi di disputa si contrappongono i regimi di
pace, perché le relazioni possono svilupparsi, a volte, in modo del tutto
pacifico, senza che vi sia la necessità di mettere in confronto le proprie
prospettive e, quindi, di sviluppare delle sequenze di critiche. Un secondo
parametro dei regimi di azione trasversale alla distinzione appena citata è,
per Boltanski, la messa in equivalenza. La messa in equivalenza è un
concetto fondamentale nell’opera del sociologo francese in quanto costituisce
un'importante distinzione all’interno dei regimi stessi di disputa e di pace.
Il concetto intende definire la possibilità di attivare un rapporto nel quale due
oggetti possono essere ravvicinati, comparati e gerarchizzati tanto che è
possibile affermare la suddetta equivalenza: «A è superiore o inferiore a
B" o " X equivale a Y»[11].
Dall’incrocio delle due distinzioni – disputa versus pace; equivalenza attivata
versus equivalenza non attivata – è possibile per Boltanski definire le forme
attraverso le quali gli individui entrano in relazione tra loro, in sostanza,
l’essere con gli altri. Più precisamente, i regimi d’azione così identificati
risultano essere quattro[12]:
- il regime
d’azione in giustizia (un regime di disputa in cui gli individui si
“scontrano” sui loro significati di giustizia e di realtà attraverso la
logica della messa in equivalenza);
- il regime della
violenza (un altro regime di disputa dove le prospettive di giustizia si
scontrano senza attivare alcuna messa in equivalenza);
- il regime di
routine (un regime di pace dove non vi sono sequenze di critiche, per cui
la pace può essere vista come il risultato di un’accettazione passiva e,
in qualche modo, pre-riflessiva, delle forme di equivalenza tacitamente
iscritte nell’ambiente sociale)
- il regime
dell'agape. Quest'ultimo è il regime di pace dove sono attivamente
scartate le possibilità di messa in equivalenza fra gli oggetti della
relazione e, in particolare, fra le persone. In questo regime, la
questione della giustizia non si pone, in quanto essa presuppone sempre
una simmetria, una messa in equivalenza che, al contrario, in un tale modo
di interagire non è presente. All’interno di un tale regime, allora, le
persone sono al riparo dal giudizio e le azioni non sono misurabili in
termini di calcolabilità, in quanto il calcolo suppone un accordo più o
meno tacito su standard e criteri attraverso i quali tracciare il rapporto
tra gli elementi che intercorrono.
La classificazione
di Boltanski, introduce dunque una possibilità in sociologia per l'azione
disinteressata, che non adotta un criterio del calcolo e dell'interesse per
rapportarsi all'altro, che riconosce nell'essere umano un fine e non un mezzo.
Nei successivi
capitoli Boltanski approfondisce il significato di agape definendola come
l’incontro con l’”uomo che si vede”. Con tale definizione, incontrare “l’uomo
che si vede”, concetto mutuato dalla filosofia di Kierkegaard, il sociologo
francese vuole intendere un amore verso l’altro che non si curi dell’idea
immaginaria su come si crede debba essere, o si vorrebbe che fosse, l’altro. In
altre parole, l’agape viene qui declinato in amore verso il prossimo che si
contraddistingue in quanto il prossimo non è l’altro vicino socialmente o
fisicamente, ma è l’individuo che si incontra sul proprio cammino. «L’attore in
stato di agape, non modellando la sua condotta sulla base della
rappresentazione fattasi della risposta dell’altro al suo atto e non incorporando
nei suoi atti la risposta anticipata di colui al quale si rivolge, non affronta
la relazione con l’altro come una sequenza di mosse e di contro-mosse,
diversamente da tutte le moderne teorie dell’azione». Nella relazione morale
così intesa, l'individuo si pone in uno stato di apertura totale verso l’altro.
L'agape trascende la messa in equivalenza e il farsi carico dell’altro, diviene
una forma di relazione, una competenza che gli individui possono mettere in
atto nell’interagire quotidiano. Per Boltanski, in ultima analisi, l’agape è il risultato del vivere con gli
altri, è un regime d’azione che abita l’ontologia, la quale non è così
monopolizzata solo dalla simmetria e dal calcolo. «Ma l’agape – conclude il
sociologo - è un caso teorico ancor prima che pratico, che trova difficile
realizzazione nella realtà empirica». In pratica:« L'agape (…) non è un valore,
ma una particolare forma che può essere assunta dalle relazioni tra gli uomini,
forma che deve essere pensata a fianco di altri idealtipi, che definiscono il
campo dei possibili modelli di socialità»[13].
Tuttavia, essa può costituire un punto di riferimento sia per l’agire
dell’individuo, sia per l’osservatore chiamato a rendere conto di situazioni a
volte inspiegabili. Inoltre l’agape, essendo incapace di misurare e calcolare,
non può progettare e non può progettarsi. Eppure, l'agape, pur non potendo
essere l’oggetto di un qualche programma politico o traduci bile in forme
sociali concrete, non è neanche
un’utopia attiva, piuttosto un modello di socialità, un modello di relazionarsi
all’altro, una forma del vivere con l’altro che, insieme agli altri regimi
d’azione, permettono all’individuo di costruire un ordine sociale ambivalente
dove i significati sono continuamente rinnovati dalle pratiche. In Stati di pace Boltanski trova una
conciliazione alla dicotomia creatasi in sociologia tra individuo e società
nello studio della morale: l'agape è uno spazio dove l’individuo può aprirsi
all’ordine sociale senza perdere nulla della sua unicità, anzi incontrandola e
nella dinamicità delle relazioni stimolarne continuamente il cambiamento. E
ancora più importante, alla ricerca di "una sociologia dell'amore",
come lui stesso afferma nel titolo, Boltanski si ritrova a costruire un
paradigma concettuale dove il gesto altruistico ha lo stesso spazio della
relazione di violenza o di negoziazione, uno spazio più esiguo e incerto, ma
comunque uno spazio che l'essere umano e la collettività può coltivare anche
se non progettare.
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