sabato 20 ottobre 2012

Le masturbazioni sociali...

Cosa rende una donna una puttana? Aver avuto molti uomini? E come si quantifica questo molti, e soprattutto chi lo decide?

Sappiamo perfettamente che il metro che le stesse donne utilizzano per valutare il grado di moralità femminile è quello che gli uomini hanno inventato e tarato. Quindi se Mick Jagger può vantare più di quattromila amanti ed essere ritenuto – è la stessa ex moglie, Jerry Hall, a dichiararlo – solo un malato di sesso, una specie di cleptomane della figa, una donna meglio, che le possa andare, è di essere ritenuta ninfomane, altrimenti l'ovvietà di essere tacciata come puttana. Ma si badi: la differenza non è solo semantica ma estremamente sostanziale. A colui che è dipendente dal sesso gli si consiglia di recarsi presso un terapeuta, un dottore che possa aiutarlo in questo piccolo problema, la ninfomania invece è oggi un termine che nel linguaggio comune ha assunto un'accezione generica e dispregiativa per definire le donne sessualmente libere e intraprendenti. Se dovessimo dirla tutta “il furore uterino”, come aveva definito nel 1771 l'eccessivo appetito sessuale femminile il medico francese J. D. T. de Bienville, nel 1985è stato poi catalogato come satiriasi, ossia come forma di ipersessualità alla stessa stregua di quella riscontrata nei soggetti maschili. Fermo restando che non credo né alla satiriasi maschile né alla ninfomania femminile (ma io non sono una psicologa), preferisco rispondere ai dubbi che queste “patologie” presentano in un campo a me più congeniale: la cultura egemone nelle società.


Nel saggio La volontà di sapere Foucault sostiene che: «L'essenziale è la molteplicazione dei discorsi sul sesso, nel campo dell'esercizio del potere: incitazione istituzionale a parlarne, e a parlarne sempre di più; ostinazione delle istanze del potere a sentirne parlare e a farlo parlare nella forma dell'articolazione esplicita e dei particolari indefinitamente accumulati». Per dirla come Marcuse la vita dell’individuo si ridurrebbe al bisogno atavico di produrre e consumare, senza possibilità di resistenza. Nel saggio L'uomo a una dimensione Marcuse denuncia il carattere fondamentalmente repressivo della società industriale avanzata, la quale appiattisce l’uomo alla dimensione di consumatore euforico e ottuso, la cui libertà è solo la possibilità di scegliere tra molti prodotti diversi. È qui che trova spazio la critica che il sociologo tedesco muoveva a Freud: sostanzialmente di aver sostenuto che la repressione fosse un fenomeno storico quando, per Marcuse, la repressione si sarebbe attuata soprattutto nelle società moderne, dove il principio del piacere è stato notevolmente svalutato nel principio della realtà. In questo senso, per lo psicologo austriaco, la lotta primordiale per l’esistenza è eterna, e eterno è dunque l’antagonismo tra principio del piacere e il principio della realtà. In questa lotta perenne la memoria non può che avere un posto centrale non solo come forma psicoterapeutica, ma anche come funzione di progressione storica. «La regressione assume una funzione progressiva. Il passato riscoperto offre norme critiche che sono represse dal presente» scriveva Marcuse. 

In poche parole le società moderne hanno deliberatamente addomesticato il principio del piacere, perché questo mal si confaceva con la politica di una società consumistica e atta al lavoro. «(il piacere, ndr) è incompatibile con le esigenze del dominio organizzato, con una società che tende a isolare le persone, a creare distanza tra l’una e l’altra, e a impedire i rapporti spontanei e le espressioni quasi animali, “naturali” di questi rapporti». Il principio della realtà specifico che ha governato le origini e la crescita della civiltà occidentale è il principio di prestazione sotto il cui dominio la società si stratifica secondo le prestazioni economiche (in regime di concorrenza) dei suoi membri. In sostanza, sotto «la legge del principio di prestazione, corpo e anima vengono ridotti a strumenti di lavoro alienato; come tali possono funzionare soltanto se rinunciano alla libertà di quel soggetto-oggetto libidico che originalmente l'organismo umano è e desidera essere. L’individuo non sa più ciò che avviene realmente: la prepotenza della macchina dell’educazione e dei divertimenti lo fonde con tutti gli altri in uno stato di anestesia nel quale si tende ad escludere ogni idea sospetta. E poiché la conoscenza dell’intera verità porta difficilmente alla felicità, questa anestesia generale rende l'individuo felice». 
Ma solo in apparenza. 

La filosofia della differenza, nata soprattutto con le idee femministe, accusano la società di essere fallogocentrica. Il termine è stato coniato da una psicoanalista lacaniana, Luce Irigaray, la quale intende rilevare come la centralità del logos, della razionalità discorsiva nella tradizione culturale occidentale è in realtà marcata e originata dal fallocentrismo originario della civiltà che questa cultura esprime. Insomma, della cultura egemone, ossia di quella maschile. La Irigaray mostra come nella società la differenza di genere sia stata ignorata e neutralizzata, interpretando la femminilità e la specificità che essa rappresenta come un'immagine riflessa - appunto, specchiata, da qui il titolo del suo saggio Speculum - nell'unica figura di identità concepita, che è basata appunto sul mondo maschile. In altre parole le donne, al pari degli uomini, non fanno altro che osservare, analizzare, criticare, la propria identità di genere con gli strumenti che gli uomini hanno dato loro: attraverso lo specchio del maschio. « Il femminismo è l'operazione mediante la quale la donna vuole assomigliare (..) al filosofo dogmatico, rivendicandone per sé la verità. Il femminismo vuole la castrazione - anche della donna. Perde lo stile, perde stile». Scriverà Derrida nel saggio Sproni. Per Derrida è proprio l'ignoranza dell'alterità in quanto tale ad aver precluso ai filosofi l'accesso alla verità, come una sorta di effetto di castrazione, a causa del quale proprio la pretesa di ridurre la verità a oggetto presente, la tentazione di esaurirla in una qualsivoglia definizione, spinge inesorabilmente la verità stessa a una sorta di rimozione.
La rimozione di se stesse.


Allora cosa rende una donna una puttana? Solo lo sguardo che vede solo ciò che vuole vedere. E quello sguardo è un riflesso che la cultura egemone ha inoculato negli individui. Non ha importanza se chi guarda è un uomo o una donna: ciò che conta è che la morale comune, sempre quella doppia morale che non mi stancherò mai di denunciare, sostiene che esistono delle differenze di comportamento e quindi di valutazione.


Nel latino antico puta significava ragazza, solo successivamente si è trasformato nell'accezione dispregiativo di prostituta. Chiediamoci allora come è stato possibile un tale mutamento semantico. E soprattutto chiediamoci cosa possiamo fare per non dimenticare che le parole non sono come foglie che il vento porta via, semmai dei concetti che restano negli anni, nei secoli. Le donne devono imparare ad amarsi, e per farlo devono affrancarsi dalla mentalità maschilista imperante e valutare le situazioni non come lo fanno gli uomini ma come lo farebbe una donna libera di mostrare la sua femminilità, senza paura di essere tacciata come una puttana.
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Una persona emerge su una parola e precipita su una sillaba


“Una persona emerge su una parola e precipita su una sillaba”. Don DeLillo fa dire questa frase a Eric nel romanzo Cosmopolis. 

La storia, devo ammettere, non trovo sia particolarmente avvincente. Tuttavia, il romanzo è ricco di aforismi semanticamente organizzati in piccole perle di saggezza, sagge forse soprattutto perché raccontano acidamente quelle ovvietà sociali che troppo spesso ci imponiamo di non guardare. 
Una persona emerge su una parola e precipita su una sillaba… tristemente vero, costantemente umano.

Ma cosa ci rende affascinanti e oggetto di ammirazione per gli occhi che ci guardano? E quanto deve essere rumorosa la sillaba che, invece, ci fa cadere nell’abisso del pubblico ludibrio?

Per rispondere a queste domande ho cercato di riflettere sulle categorie alle quali faccio riferimento quando nutro un sentimento di approvazione nei confronti di qualcuno. L’italiano però è davvero una bella lingua, e ha tutta una vasta gamma di vocaboli per spiegare le infinite emozioni che l’animo umano può provare, e allora mi sono resa conto che non tutte le persone per le quali nutro approvazione, riescono a far decollare in me anche il sentimento di ammirazione. A dire il vero, è quasi difficile che questi individui siano ai miei occhi anche affascinanti. Il lato oscuro che ognuno di noi possiede, certo. Il mio è spesso talmente nero da essere costretta a portare sempre con me una pila, proprio come il mantra religioso che il buon Pascal portava legato alla tunica. Una luce che rischiara, ma non per questo capace di illuminare il sentiero da percorrere.

Approvo l’onestà, il senso di vera amicizia, la lealtà verso gli altri, ma soprattutto la coerenza con i propri pensieri e le proprie azioni. Eppure, sono affascinata dall’insostenibile leggerezza dell’essere… cosa sia questa leggerezza dell’essere è una scoperta che non può essere categorizzata in un solo istante di vita, perché tutti i giorni apprendo cosa significhi per me far volteggiare il pensiero. Ma in questa riflessione mi sono resa conto di un’altra verità: l’idea di approvazione cambia a seconda del genere. Si sa che l’uomo, e intendo socialmente parlando, si può permettere delle ambiguità che alla donna sono da sempre nettamente precluse.  Analisi questa che, da che c’è stata la rivoluzione sessuale, riempie i capitoli di manuali di psicologia e sociologia. Insomma, la teoria della doppia morale non è solo un apostrofo rosa tra le parole sesso e comportamento, semmai una realtà che, nonostante le varie Madonna e Lady Gaga, continua a rimanere fermamente consolidata anche nelle culture tecnologicamente raffinate. E va tristemente annotato che le peggiori nemiche della libertà, coloro che mostrano una forma mentis figlia del maschilismo radicato, sono proprio le donne. Non è totalmente colpa loro, s’intende. È difficile riuscire a dimenticare tutto ciò che ci è stato inculcato negli anni, nei secoli. Nessuno ci ha mai detto espressamente che i film porno sono dei piacevoli sollazzi tipicamente maschili, eppure in qualche modo ci hanno fatto credere che fosse così. Ci hanno detto che alle donne certe immagini non possono piacere, ancor meno eccitare, perché quello che viene riprodotto nel filmetti vietati ai minori di diciotto anni, è solo una finzione di un rapporto sbagliato perché senza amore.

E la donna non fa mai sesso senza amore…

Sulla falsità di questo sillogismo non apodittico si potrebbero scrivere infiniti altri capitoli di manuali che, forse, la società attuale così chiusa nelle proprie paure, non è pronta a scrivere e ancor meno a leggere. Marilyn Monroe non ha caso resta ancora l’icona della femminilità enfatizzata che riesce a superare le mode del momento. I maschi ambiscono alle femmine burrose che danno l’idea di essere gattine senza unghie, e le donne rincorrono questo sogno attraverso la chirurgia estetica. Non è la ricerca della giovinezza a determinare le regole del silicone, altrimenti non ci sarebbero tante sedicenni a chiedere per il loro compleanno delle tette nuove di zecca. La maschilità egemone rimanda, infatti, alla supremazia sociale esercitata non con la forza bruta ma attraverso una dinamica culturale che pervade la vita privata e gli ambiti sociali.

Ma l'amore è davvero un sentimento? 

O piuttosto un composto chimico? Ricerche scientifiche hanno dimostrato che è la dopamina a far scoccare la scintilla dell'innamoramento. Non mi dilungherò sulle relazioni amigdala-amore-sesso, tuttavia le teorie delle neuroscienze restano estremamente affascinanti anche da un punto di vista più spiccatamente sociologico perché, seguendo quest'ottica, aumenterebbero le variabili dipendenti, ossia quelle che possono essere osservabili da campione, nell'interazione tra i diversi individui. Interazione che, per dirla come Durkheim, determinano i fatti sociali.
È un fatto sociale che se una donna mostra una vita sessuale libera verrà additata come puttana e, di conseguenza, meritevole di questa etichetta per l’eternità. La giurisprudenza ha accettato l’indulto per alcuni crimini, ma non c’è indulgenza per la donna che gioca allo stesso modo in cui giocano gli uomini. Forse perché – per dirla sempre con Don DeLillo – il sesso ci maschera. Il sesso vede dentro di noi. Ecco perché è così devastante. Ci spoglia delle apparenze.

In una società dove tutto, o quasi, è apparenza, l’erotismo resta l’unica forma non mistificante in cui le fantasie possano ancora trincerarsi. Una sorta di iperuranio platonico in cui l’idea prende voce, ma lo fa in silenzio e senza invadenze. Marcuse in Eros e civiltà sosteneva che la fantasia avesse una funzione d'importanza decisiva nella struttura psichica totale, perché collegava gli strati più profondi dell'inconscio con i prodotti più alti della coscienza (arte), il sogno con la realtà, e conservava gli archetipi della specie, le idee eterne ma represse della memoria collettiva e individuale, le immagini represse e ostracizzate della libertà. La donna erotica è accettata dal moderno maschilismo egemone, ma solo come utile masturbatoria mentale. Il resto è un concentrato orgiastico di ipocriti cliché sociali, dove neppure Dioniso trova la sua più intima sublimazione. È ipocrita anche l’atteggiamento di alcuni maschi che recitano la parte dell’uomo moderno, fingendo – e magari ci credono davvero – di essere dei paladini del colore rosa. Il mondo della politica è assai fertile di questi individui. Vivono in uno stagno di incongruenze e di falsi moralismi che attuano a loro discrezione. Perché la politica è per antonomasia virile, maschia. Non a caso qualcuno, tempo fa,  aveva adottato lo slogan del noi ce lo abbiamo duro. Negli anni questi coloro hanno dimostrato che l’unica cosa dura che possedevano era il loro comprendonio. Nel frattempo però hanno cavalcato l’onda, neppure tanto anomala, di un maschilismo perseverante e fuori controllo.

Anche molte donne hanno finito con l’aggrapparsi tenacemente a quest’onda…

Per dirla come la spiegherebbe Foucault, stiamo parlando della cosiddetta Biopolitica, ossia della vita che diventa oggetto. Il filosofo muove i suoi passi attraverso la lettura dei cosiddetti filosofi del sospetto, Marx-Nietzsche-Freud, e non dimentica di analizzare la problematica sessuale all'interno della  filosofia del potere. L’analisi della componente sessuale nella nostra società letta attraverso la filosofia del potere vede l'interdizione ufficiale del sesso, negli ultimi secoli, come una trappola e un alibi per nascondere la consacrazione di tutta una cultura all'imperativo sessuale. In altre parole, il limite dell’ipotesi repressiva consisterebbe nel non aver compreso che anche i meccanismi di messa al bando ufficiale del sesso fanno parte di un disegno strategico complessivo, volto a dare importanza alla sessualità e a favorire una vera e propria esplosione discorsiva intorno ad essa, dove la donna altro non è che l’oggetto attorno al quale tutta questa strategia ruota.
Se per prime non siamo noi donne a dire basta a tutta questa mercificazione e a questa doppia morale, non ci resta che un futuro uguale al presente e al passato.
Chiudo con un altro aforisma di Don DeLillo, sempre tratto da Cosmopolis:
Voglio una vita di libertà mentale in cui le mie Confessioni possano prosperare.

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L'amore come collante sociale l'eros come controllo sociale


Cos'è l'amore? La domanda potrebbe sembrare retorica, o quanto meno la risposta potrebbe apparire scontata. In effetti, tutti sembrano avere una risposta, più o meno plausibile su cosa sia l'amore.
«Volontaria follia, piacevol male,
stanco riposo, utilità nocente,
disperato sperar, morir vitale,
temerario dolor, riso dolente;
un vetro forte, una adamente frale,
un'arsura gelata, un gelo ardente,
di discordie concordi abisso eterno,
paradiso infernal, celeste inferno!»
Giambattista Marino, nel poema Adone, descrive l'amore come un sentimento contrastato e contraddittorio, dove gioie e dolori si avvicendano costantemente nell'innamorato che, in preda a questo sentimento inarticolato, non può che soccombere. E nel suo soccombere vive.
Sul tema d'amore vi è un'infinità di letteratura, perché tutti hanno amato e tutti prima o poi ameranno. E questo farebbe di ognuno di noi degli esperti in materia. In realtà, se l'uomo avesse dato la definizione esatta su cosa sia l'amore, l'argomento sarebbe già totalmente esaurito e parlarne ancora sarebbe quanto meno inutile. Tuttavia, come scrisse Ninon de Lenclose nella Lettera al marchese di Sevigné: «L'amore è la commedia in cui gli atti sono più corti e gli intermezzi più lunghi». Questo significa che i sospiri d'amore saranno sempre più pieni delle parole e i non detti più ricchi di patos dei dialoghi. E questo vuol dire che, nonostante i fiumi di poesie e di saggi, non si riuscirà mai a dare un senso a questo sentimento che regge l'azione dell'uomo. Sia in un senso positivo che un senso negativo. Tuttavia, mi sia concessa questa digressione assolutamente personale, l'impossibilità di dare una definizione cogente e perdurante  non può che essere un bene, perché in una società permeata da un neopositivo e da un tecnicismo esasperato, non resta che un unico mistero: l'amore.

Ma l'amore è davvero un sentimento? O piuttosto un composto chimico?
Negli ultimi anni le neuroscienze hanno tentato di rispondere in modo totalmente scientifico alla domanda che ci siamo posti all'inizio di questa introduzione. In un  articolo apparso sul Corriere della sera nel 2002 si citava un saggio della dottoressa Donatella Marazziti intitolato La natura dell'amore, edito da Rizzoli, in cui si sosteneva che l'amore altro non è che una questione chimica. La psichiatra sarebbe giunta a tale conclusione attraverso un'indagine sul campo, analizzando i cosiddetti casi di cecità affettiva. La Marazziti, nel suo saggio, ipotizza una rete di sottotracce che, passando per l'amigdala e i lobi frontali, ossitocina e serotonina, ippocampo e corteccia, finiscono per delineare il “ritratto” biologico, l' interfaccia corporea dell'amore.  Non solo. La psichiatra annovera tra le patologie dell'amore l'incapacità o la paura di innamorarsi che, evidentemente non sono causate solo da un vissuto infantile disastroso o da una traumatica delusione, ossia da quell'interfaccia emotiva e quindi psicoanalitica,  ma anche da un'amigdala mal funzionante o su una scarsa fornitura di dopamina. Il professor Gianluigi Gessa dell'Università di Cagliari, noto ricercatore, ha battezzato questa sostanza chimica “la benzina del desiderio” perché sarebbe proprio la dopamina a far scoccare la scintilla dell'innamoramento. A prova di quanto detto vi sarebbero gli studi eseguiti a  persone con lesioni al nucleo cerebrale dell'amigdala[1], i quali presentavano “cecità affettiva”, una sorta di atarassia che preclude al malato un'incapacità emozionale: caso estremo, un paziente che restò impassibile alla notizia della morte improvvisa di entrambi i genitori. Chi soffre di depressione lamenta spesso la perduta capacità di provare sentimenti e, in questi malati, alterato e carente è soprattutto il sistema della serotonina, la sostanza o neurotrasmettitore chimico che più influenza l'amigdala. Ripristinata con gli psicofarmaci la corretta biochimica cerebrale fa sparire la depressione e fa ricomparire la capacità d'amare. Le prove sono ovviamente tutte indirette perché medici e scienziati scoprono i meccanismi interni del corpo, e quindi possono ipotizzare le strutture cosiddette normali, attraverso le malattie, ossia attraverso i mal funzionamenti della macchina umana. Quanto all'innamoramento che può scatenare disturbi ossessivo-compulsivo, depressivo e altri ancora, la spiegazione, già ipotizzata peraltro da Michael Liebowitz nel saggio “La chimica dell'amore” (1983), sarebbe spiegata attraverso la liberazione, da parte del cervello, di sostanze simili all'anfetamina. Esplosione che, in un soggetto predisposto a vulnerabilità più o meno latenti, o se capitano in periodi di forte stress, potrebbero causare disturbi.  La Marazziti è infatti partita da questa analisi: «Da innamorati, siamo invasi dal pensiero ossessivo dell'altro, allora mi sono chiesta se a livello biochimico si riscontrino somiglianze con quanti soffrono di disturbo ossessivo. Ho analizzato un certo numero di volontari appena innamoratisi e un ugual numero di malati, e ho riscontrato nei due gruppi una analoga riduzione del sistema serotoninergico». Insomma, dopo quest'analisi scientifica di poetico sull'amore forse non resta molto. Eppure, le teorie delle neuroscienze restano estremamente affascinanti anche da un punto di vista più spiccatamente sociologico perché, seguendo quest'ottica, aumenterebbero le variabili dipendenti, ossia quelle che possono essere osservabili da campione, nell'interazione tra i diversi individui. Interazione che, per dirla come Durkheim, determinano i fatti sociali.
Secondo il sociologo Francesco Alberoni in Ti amo sostiene che ci si innamora quando si è pronti a mutare, a lasciare un'esperienza già fatta per abbracciare invece quello slancio vitale che porterebbe poi ad una nuova esplorazione. Insomma per cambiare vita. Ecco perché ci sono periodi in cui innamorarsi è difficile: sono appunto quei momenti in cui, per dirla come la Marazziti, la nostra amigdala non funzionerebbe come dovrebbe.
Alberoni, però, alle analisi neuroscientifiche preferisce quelle più affini alla psicoanalisi, seppur con notevoli differenze[2], e spiega che gli individui si legano a coloro che:
  1. che danno piacere. Questo è un tipo di attaccamento fragile perché s'interromperebbe quando il piacere cessa;
  2. che sfuggono. Si tratta del meccanismo della perdita: in pratica ci si lega alle persone che sfuggono o che ci vengono portate via;
  3.  che piacciono agli altri. È il meccanismo dell'indicazione: si tende a desiderare ciò che il gruppo indica come attraente e dotato di valore;
  4. innamoramento vero e proprio, ossia il meccanismo dello stato nascente. In questa fase il sociologo interpreta il desiderio di cambiare e di abbandono con una forma di rinascita attraverso la fusione con l'altro.
L'innamoramento per Alberoni è un'esperienza straordinaria, un risveglio e non una regressione o una nevrosi, piuttosto una sorta di big ben emozionale. 
«Il modo corretto di analizzarlo (l'individuo innamorato, ndr) non è quello della psicologia individuale, ma della sociologia. Anzi, in modo particolare, della sociologia dei movimenti collettivi»[3]. E secondo il sociologo italiano nessuna collettività può nascere se gli individui non rinascono a loro volta[4].
Ma secondo Freud la storia dell'uomo è la storia della sua repressione. In Al di là del principio e del piacere (1920) il padre della psicoanalisi  formula la teoria delle pulsioni basata sul conflitto tra pulsioni di vita e pulsioni di morte: eros, inteso come istinti di vita, e thanatos, interpretato come istinto di  morte. Il primo si esprimerebbe nell'amore, nella creatività e nella costruttività; il secondo nell'odio e nella distruzione.
Nel saggio intitolato Il disagio della civiltà umana Freud si porrà il problema del destino della specie umana sostenendo che gli uomini, estendendo il loro potere sulle forze naturali e  «giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all'ultimo uomo. L'Eros eterno, farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario altrettanto immortale. Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l'esito?»  Ecco perché per Freud l'uomo rinuncia a molta sua felicità per rendere possibile una vita associata, la civiltà, non autodistruttiva. In pratica l'umanità sacrifica il Principio del piacere  in nome del Principio della realtà, reprimendo in questo modo i propri istinti, le proprie pulsioni e, in sostituzione di questi ultimi, sublimerebbe attraverso tutte quelle attività che sono comunemente considerate frutto della civiltà (arte, cultura, lavoro, ecc.). La società impone, quindi, una modifica dell'essenza degli istinti, dirottandoli dalla sfera sessuale a quella del lavoro. Ed è qui che Herbert Marcuse, nel saggio Eros e civiltà,  pone la sua obiezione in questi termini: «il processo repressivo descritto da Freud è un fatto intrinseco alla natura di ogni società, o si tratta di un fenomeno transitorio in quanto frutto di un'organizzazione irrazionale delle forme di convivenza tra gli uomini?» La risposta che Marcuse fornisce a questa domanda è in aperto contrasto con la tesi di Freud: «la scarsità di beni per cui sono necessari meccanismi quali la divisione del lavoro e il differimento dei bisogni (in una parola, la repressione) è frutto di una organizzazione irrazionale della società, nella quale i beni sono distribuiti in misura iniqua. Freud ha scambiato per caratteristica generale un assetto transitorio che configura un dominio attuato attraverso forme di violenza in un primo momento e, successivamente, con l'amministrazione totale della società».  Il dualismo degli istinti però, secondo Marcuse, è solo apparente. Se entrambi infatti hanno una natura conservatrice comune e gravitano entrambi verso il Nirvana, ne consegue che «l'istinto di morte è distruttività non fine a se stessa, ma presente solo per liberare da una tensione. La discesa verso la morte è una fuga inconscia dal dolore e dal bisogno. E' un'espressione dell'eterna lotta contro la sofferenza e la repressione». Uno stravolgimento al pensiero freudiano, ma che serve a Marcuse per trovare il modo di fondare l'utopia di una radicale trasformazione dell'uomo e del mondo su di una base psicobiologica. Solo questa base infatti può dare ad essa un carattere di necessità. La teoria di Freud è suggestiva perché comporta l'attribuzione alla natura umana di istinti di vita la cui realizzazione piena può portare alla felicità. Essa però, secondo Marcuse, va depurata dell'antitesi tra Eros e Thanatos. Quest'ultimo infatti, si pone come ostacolo permanente sulla via di un'utopia che associa alla felicità individuale la felicità di tutti. Riconducendolo ad una protesta contro la sofferenza e la repressione, l'istinto di morte viene sdrammatizzato e negato. La realizzazione di una vita all'insegna dell'Eros, di una vita dunque liberata dalla repressione e aperta alla felicità, nella misura in cui realizza quella protesta, la azzera. L'utopia della felicità ha dunque, secondo Marcuse, un fondamento psicobiologico nella rivendicazione intrinseca all'inconscio di una vita incentrata sul principio del piacere. Il conflitto tra il principio del piacere e il principio di realtà, che Freud assume come fondamento del passaggio dallo stato di natura a quello di cultura, e che comporta inesorabilmente la frustrazione del desiderio illimitato, è assunto da Marcuse come un conflitto non naturale bensì storico: «un'organizzazione repressiva degli istinti si trova alla base di tutte le forme storiche del principio della realtà nella società civile».
La critica centrale che Marcuse muove al padre della psicoanalisi è quella di aver identificato il principio della realtà con una particolare forma storica e di repressione, prevalente nella società borghese. La repressione è per filosofo della Scuola di Francoforte connessa alla sostituzione del principio del piacere col principio di realtà, ma  sottolinea la presenza di un altro livello attraverso il quale la società opprime l'essere umano, e cioè il cosiddetto  principio di prestazione. Là dove per prestazione si intende ciò che “si deve fare” a causa del proprio ruolo nella società, quindi la repressione attuata attraverso questo principio è strettamente legata alla stratificazione sociale e alla divisione del lavoro. In altre parole la prestazione è ciò che l'individuo deve fornire alla società, ed è ciò che la società si aspetta dall'individuo. Questa ulteriore repressione non avviene solamente attraverso la funzione che la persona svolge, ma è veicolata anche dalla famiglia patriarcale e dalla direzione univoca imposta alla sessualità, ovvero la genitalità, intesa come processo di procreazione piuttosto che di piacere fine a se stesso.
«Il principio della realtà, cioè la repressione, si configura anzitutto come obbligo di produrre, di lavorare: però questo lavoro non è repressivo in quanto tale, ma in quanto lavoro alienato»[5]. È evidente in questo passaggio le forti influenze marxiane sul concetto di alienazione, perché l'alienazione formulata da Marx è appunto l'impossibilità di essere liberi, di poter prendere delle decisioni sul proprio futuro, è insomma una forma di repressione che il capitalista impone all'operaio.
In questa opera Marcuse, di fatto, ha rovesciato le teorie freudiane  affermando, il contrario di quanto lo stesso Freud aveva teorizzato in un momento forse più filosofico che psicoterapeutico, che è possibile una società non repressiva. Il sociologo tedesco era d'accordo con Freud nello scorgere nella repressione il prezzo da pagare alla civilizzazione ma, a differenza dello psicologo austriaco, affermava che non è la civiltà in quanto civiltà a risultare repressiva, a richiedere una costante repressione istintuale, ma quel tipo particolare di civiltà impostasi in Europa e in America: la civiltà autoritaria e borghese. In sostanza, diceva Marcuse, questa società non si è limitata a richiedere il minimo della repressione istintuale richiesto dalla convivenza civile, ma ha preteso un surplus repressivo per motivi che hanno nulla a che vedere con la natura dell'uomo e la convivenza civile stessa, ma sono tutti riportabili al sistema sociale, politico ed economico, oltre che a convinzioni ideologiche[6]. La repressione è l'unico modo di garantire l'efficienza, quel principio di prestazione che è alla base dell'efficientismo capitalistico. La genitalizzazione monogamica, la famiglia, sono istanze funzionali alla produzione e alla riproduzione, abiti etici imposti dal regime alla gente. In questa chiave, afferma Marcuse:« ... il fine della vita, anziché essere quello di godere e far godere il nostro stare al mondo, a titolo di liberi soggetti-oggetti libidici, è storicamente divenuto il lavoro e la fatica, che gli individui hanno finito per accettare come qualcosa di "naturale", o come la "giusta" punizione per qualche colpa commessa, "introiettando" in tal modo la repressione, secondo il principio della cosiddetta "autorepressione dell'individuo represso"». Tuttavia – sostiene Marcuse - la civiltà della prestazione non è riuscita a far tacere completamente l'impulso primordiale verso il piacere, la cui memoria è conservata nell'inconscio e nelle sue fantasie: «La fantasia ha una funzione d'importanza decisiva nella struttura psichica totale: essa collega gli strati più profondi dell'inconscio con i prodotti più alti della coscienza (arte), il sogno con la realtà; conserva gli archetipi della specie, le idee eterne ma represse della memoria collettiva e individuale, le immagini represse e ostracizzate della libertà». Il tutto, al di là del fatto che nella pratica quotidiana secondo Marcuse, è già operante un maggior uso della sensibilità, una tendenza a vivere la vita come gioco, una spinta affinché le forze dell'amore, dell'Eros, si impongano sull'odio, su Thanatos, le forze negative e gli istinti di morte, esiste nel sistema stesso la possibilità di una riduzione dei tempi di lavoro, liberando tempo disponibile per una vita più gradevole. In tale contesto, è evidente che l'atmosfera ottimistica di Eros e civiltà[7] è nettamente in contrasto con le visioni pessimistiche di Horkheimer e Adorno, per i quali la perdita di autenticità non è certamente riducibile a tempo, denaro, repressione della libido, ma a questioni più profonde e radicali. D'altro canto lo stesso Freud aveva definito la felicità come “soddisfazione ritardata di un desiderio preistorico”, e questa sarebbe la ragione per cui la ricchezza porterebbe poca felicità, proprio perché il denaro non è un oggetto di desiderio durante l'infanzia. In effetti, dopo Eros e civiltà, anche Marcuse avrà un ripensamento e, soprattutto nel L'uomo ad una dimensione, arriverà a denunciare come falsa la liberazione sessuale, contrapponendovi una liberazione dell'amore ancora tutta da venire e persino da capire.
La tesi del saggio di Marcuse è che l'uomo moderno si è dessessualizzato, ha in pratica posto la sublimazione dei propri istinti sessuali sul rapporto di produzione, un rapporto che, marxianamente inteso, è alienato e che porta alla repressione istintuale e della libido. «Quando, nelle società più o meno opulente, la produttività ha raggiunto un livello al quale le masse partecipano ai suoi vantaggi, per cui l'opposizione è tenuta, efficacemente e democraticamente, sotto controllo, allora anche il conflitto tra padrone e schiavo è efficacemente tenuto sotto controllo»[8]. Secondo Marcuse nella società moderna il controllo della sessualità fomenta la repressione umana. L'umanità, tuttavia, non s'accorge di essere repressa perché ha annullato il principio del piacere all'interno del principio di prestazione. L'ottimismo in Eros e civiltà sta nel fatto che l'uomo conserva tracce dei primordiali istinti attraverso la fantasia e che attraverso «la liberazione delle tendenze istintuali alla pace e alla serenità, all'appagamento dell'Eros “asociale” ed autonomo, presuppone la liberazione dall'opulenza repressiva: l'inversione della direzione di marcia del progresso»[9].
Con Marcuse il concetto d'amore presupponeva una non differenza sostanziale con il concetto di eros. Luc Boltanski in Stati di pace. Una sociologia dell'amore rivendica invece una diversità funzionale tra i due concetti. In particolare Boltanski sostiene la possibilità di creare una società in cui l'agape, ripulita dalle speculazioni spiccatamente teologiche, possa agire come forza propulsiva nell'interazione degli individui.
Il programma teorico del sociologo francese è il tentativo di realizzare una sociologia della morale, intesa questa come riflessione in cui è possibile analizzare e studiare l'azione degli individui all'interno delle società, le ragioni che spingono gli stessi al loro agire e le esigenze morali che questi si danno o vorrebbero darsi. In Stati di pace Boltanski presenta dunque la sua analisi della morale entro un percorso di studi complesso e articolato tratto dalla sua opera più completa L’amour et la justice comme compétences, di cui il saggio che prenderemo in considerazione ne rappresenta solo un capitolo. L'autore si avvicina all'analisi della morale concordando con Durkheim sulla sua necessaria presenza nella vita sociale ma, nel suo approccio, si allontana fin dall'inizio dalla relazione durkheimiana tra società e morale. Boltanski, infatti, cerca di presentare, all'interno di uno schema di classificazione delle azioni, una dimensione della morale fondata sul concetto di amore cristiano, ossia l'agape, senza legarla alla dimensione sociale come aveva fatto Durkheim. Per Boltanski la società non è la fonte esclusiva del comportamento morale e non ne è l'oggetto: al contrario, ritiene che la dimensione morale non abbia fondamenti,  ma si fondi piuttosto sull'azione quotidiana che si fa carico dell'altro. In tal modo il giudizio morale non è il riflesso di una sovrastruttura né di una società sui generis, bensì è un’espressione della condizione antropologica legata, ancora prima che alla filosofia o alla teologia, all'esperienza quotidiana dell’essere umano. Fondamentali, dunque, nello studio morale di Boltanski sono la dimensione pratica (intesa sia come azione che come quotidianità) e relazionale: la morale deve essere studiata come azione, come questione pratica legata alla complessità della vita di ogni giorno, cercando di porre così in rilievo le pratiche dei soggetti che quotidianamente costruiscono e negoziano i significati di riferimento delle proprie azioni, anche quelle morali.
In Stati di pace assume una posizione centrale proprio questa discussione pratica, nella quale vengono definiti i punti di vista morali degli attori sociali e le argomentazioni valide a sostenerli. L’approccio di Boltanski è dunque un approccio costruzionista (ossia i significati sociali sono esito di una continua negoziazione) ispirato alla lunga tradizione fenomenologica francese che va da Focault fino a Bourdieu.
Nei primi capitoli del saggio Boltanski propone il contesto teorico e analitico più ampio in cui si inserisce lo studio della morale come particolare tipo di azione nelle relazioni umane, come forma in pratica dell'interagire umano.
Per riferirsi a queste forme del vivere con gli altri, Boltanski parla di regime d’azione distinguendo tra regimi di disputa e regimi di pace[10].
Nei primi egli suppone esista una discussione tra le diverse prospettive degli attori. Nei regimi di disputa le persone «motivano la propria azione, mettono in opera il proprio senso di giustizia, avanzano delle giustificazioni». Ai regimi di disputa si contrappongono i regimi di pace, perché le relazioni possono svilupparsi, a volte, in modo del tutto pacifico, senza che vi sia la necessità di mettere in confronto le proprie prospettive e, quindi, di sviluppare delle sequenze di critiche. Un secondo parametro dei regimi di azione trasversale alla distinzione appena citata è, per Boltanski, la messa in equivalenza. La messa in equivalenza è un concetto fondamentale nell’opera del sociologo francese in quanto costituisce un'importante distinzione all’interno dei regimi stessi di disputa e di pace. Il concetto intende definire la possibilità di attivare un rapporto nel quale due oggetti possono essere ravvicinati, comparati e gerarchizzati tanto che è possibile affermare la suddetta equivalenza: «A è superiore o inferiore a B" o " X equivale a Y»[11].
Dall’incrocio delle due distinzioni – disputa versus pace; equivalenza attivata versus equivalenza non attivata – è possibile per Boltanski definire le forme attraverso le quali gli individui entrano in relazione tra loro, in sostanza, l’essere con gli altri. Più precisamente, i regimi d’azione così identificati risultano essere quattro[12]:
  1. il regime d’azione in giustizia (un regime di disputa in cui gli individui si “scontrano” sui loro significati di giustizia e di realtà attraverso la logica della messa in equivalenza);
  2. il regime della violenza (un altro regime di disputa dove le prospettive di giustizia si scontrano senza attivare alcuna messa in equivalenza);
  3. il regime di routine (un regime di pace dove non vi sono sequenze di critiche, per cui la pace può essere vista come il risultato di un’accettazione passiva e, in qualche modo, pre-riflessiva, delle forme di equivalenza tacitamente iscritte nell’ambiente sociale)
  4. il regime dell'agape. Quest'ultimo è il regime di pace dove sono attivamente scartate le possibilità di messa in equivalenza fra gli oggetti della relazione e, in particolare, fra le persone. In questo regime, la questione della giustizia non si pone, in quanto essa presuppone sempre una simmetria, una messa in equivalenza che, al contrario, in un tale modo di interagire non è presente. All’interno di un tale regime, allora, le persone sono al riparo dal giudizio e le azioni non sono misurabili in termini di calcolabilità, in quanto il calcolo suppone un accordo più o meno tacito su standard e criteri attraverso i quali tracciare il rapporto tra gli elementi che intercorrono.
La classificazione di Boltanski, introduce dunque una possibilità in sociologia per l'azione disinteressata, che non adotta un criterio del calcolo e dell'interesse per rapportarsi all'altro, che riconosce nell'essere umano un fine e non un mezzo.
Nei successivi capitoli Boltanski approfondisce il significato di agape definendola come l’incontro con l’”uomo che si vede”. Con tale definizione, incontrare “l’uomo che si vede”, concetto mutuato dalla filosofia di Kierkegaard, il sociologo francese vuole intendere un amore verso l’altro che non si curi dell’idea immaginaria su come si crede debba essere, o si vorrebbe che fosse, l’altro. In altre parole, l’agape viene qui declinato in amore verso il prossimo che si contraddistingue in quanto il prossimo non è l’altro vicino socialmente o fisicamente, ma è l’individuo che si incontra sul proprio cammino. «L’attore in stato di agape, non modellando la sua condotta sulla base della rappresentazione fattasi della risposta dell’altro al suo atto e non incorporando nei suoi atti la risposta anticipata di colui al quale si rivolge, non affronta la relazione con l’altro come una sequenza di mosse e di contro-mosse, diversamente da tutte le moderne teorie dell’azione». Nella relazione morale così intesa, l'individuo si pone in uno stato di apertura totale verso l’altro. L'agape trascende la messa in equivalenza e il farsi carico dell’altro, diviene una forma di relazione, una competenza che gli individui possono mettere in atto nell’interagire quotidiano. Per Boltanski, in ultima analisi,  l’agape è il risultato del vivere con gli altri, è un regime d’azione che abita l’ontologia, la quale non è così monopolizzata solo dalla simmetria e dal calcolo. «Ma l’agape – conclude il sociologo - è un caso teorico ancor prima che pratico, che trova difficile realizzazione nella realtà empirica». In pratica:« L'agape (…) non è un valore, ma una particolare forma che può essere assunta dalle relazioni tra gli uomini, forma che deve essere pensata a fianco di altri idealtipi, che definiscono il campo dei possibili modelli di socialità»[13]. Tuttavia, essa può costituire un punto di riferimento sia per l’agire dell’individuo, sia per l’osservatore chiamato a rendere conto di situazioni a volte inspiegabili. Inoltre l’agape, essendo incapace di misurare e calcolare, non può progettare e non può progettarsi. Eppure, l'agape, pur non potendo essere l’oggetto di un qualche programma politico o traduci bile in forme sociali concrete, non è  neanche un’utopia attiva, piuttosto un modello di socialità, un modello di relazionarsi all’altro, una forma del vivere con l’altro che, insieme agli altri regimi d’azione, permettono all’individuo di costruire un ordine sociale ambivalente dove i significati sono continuamente rinnovati dalle pratiche. In  Stati di pace Boltanski trova una conciliazione alla dicotomia creatasi in sociologia tra individuo e società nello studio della morale: l'agape è uno spazio dove l’individuo può aprirsi all’ordine sociale senza perdere nulla della sua unicità, anzi incontrandola e nella dinamicità delle relazioni stimolarne continuamente il cambiamento. E ancora più importante, alla ricerca di "una sociologia dell'amore", come lui stesso afferma nel titolo, Boltanski si ritrova a costruire un paradigma concettuale dove il gesto altruistico ha lo stesso spazio della relazione di violenza o di negoziazione, uno spazio più esiguo e incerto, ma comunque uno spazio che l'essere umano e la collettività può coltivare anche se  non progettare.


[1]             Nucleo di sostanza grigia alla base del cervello, appartenente al sistema limbico. Si ritiene che abbiano a che fare con la memoria emozionale.
[2]    F. Alberoni, “Ti amo”, edizioni Bur 2007: «Per la psicoanalisi l'innamoramento è il prodotto di un desiderio sessuale frustrato, inibito alla meta, mentre la fusione con l'amante e l'amato è il prodotto della regressione ai primissimi anni di vita, quando l'unico oggetto è la madre» , pag. 24.
[3]    Ivi, pag.25
[4]    Ivi, pag.26
[5]    Herbert Marcuse, “Eros e civiltà”, Edizione Piccola Bilioteca Einaudi, 2001; pag. 25
[6]    Ivi, «Ogni lotta per la vita, la lotta per Eros, è la politica», pag.45
[7]    Ivi, «...con questo titolo intendevo esprimere un'idea ottimistica, eufemistica, anzi concreta, la convinzione che i risultati raggiunti dalle società industriali avanzate potessero consentire all'uomo di capovolgere il senso di marcia dell'evoluzione storica, di spezzare il nesso fatale tra produttività e distruzione, libertà e  repressione...», pag.33
[8]    Ivi, pag.37
[9]    Ivi, pag.36
[10] Luc Boltanski, “Stati di pace. Una sociologia dell'amore”, edizione V&P, 2005, pag, 11
[11]  Ivi, pag. 28
[12] Ivi, pag.29
[13] Ivi, pag.17
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L'amore come collante sociale - Stati di pace. Una sociologia dell'amore di Luc Boltanski


Secondo il sociologo francese le relazioni sociali possono essere occasioni di conflittualità, ma è altrettanto vero che in molti casi l'agire degli individui si svolge in modo pacifico. La pace può essere il prodotto di routines necessarie o il frutto di una rinuncia al "do ut des" che sta alla base del concetto di giustizia, ossia uno stato del cosiddetto “gratuito” che va oltre la logica del freddo calcolo. «In un mondo considerato dalla prospettiva della giustizia esistono unicamente tre tipi di situazioni: alle situazioni giustificabili si contrappongo o situazioni  di violenza o situazioni contingenti, e su queste ultime due non vi è nulla da dire. Se è vero che la giustizia è pur sempre disputa, non possiamo però ricondurre alla contingenza tutto ciò che le sfugge. La pace non è riducibile alla contingenza, né ad una situazione in cui una disputa giustificabile (anche se non attivamente giustificata) di persone e cose potrebbe prevenire momentaneamente la disputa. Ora, anche la pace riguarda le persone, poiché ne hanno intuizione e, spesso, nostalgia»[1]. In pratica la pace, secondo Boltanski, escluderebbe la disputa in violenza, ossia il confronto tra le persone che, sotto qualsiasi spinta, porterebbe queste alla reciproca distruzione. Ma la pace escluderebbe anche quegli stati, che per quanto stabili all'apparenza, restano comunque inquadrabili in un regime di violenza in quanto il silenzio degli uni o degli altri risponde alla logica della calma apparente e della cosiddetta quiete prima della tempesta[2]. La pace non ha neppure nulla a che fare con la disputa sulla giustizia, caratterizzata questa  dall'impiego attivo di principi d'equivalenza generale che permettano, tramite prove, di attribuire alle persone un ordine di grandezza. «La pace è resa manifesta dal silenzio  delle equivalenze: quando due persone sono in pace, il riferimento all'equivalenza è inutile»[3]. Anche l'amore – sostiene Boltanski – ci è sempre stato presentato come un'alternativa alla violenza e come un'alternativa alla giustizia, eppure l'amore e i mezzi impiegati da questo sono  ignorano il regime di equivalenza, proprio come gli altri due stati, perché ci si può amare con capacità diverse e in molti modi possibili. Quindi neppure l'amore ha a che fare con lo stato di pace e, per spiegare cosa sia lo stato di pace e il comportamento ad esso connesso,  l'autore introduce il concetto di agape. Ovvero quella tensione tra amore e giustizia che riporta le azioni a un grado di equivalenza. L'amore di cui si parla non è quello teologico, assoluto, ma un amore che deve fare i conti con la quotidianità e che ciò nonostante dà speranza e rende le relazioni umane più vitali.


Questo tipo d'amore è  l'amicizia perché, come già aveva sostenuto Aristotele dell'Etica Nicomachea,  l'amicizia indica sempre un rapporto di reciprocità, un socialità almeno tra due individui. «Perché si instauri l'amicizia, è innanzitutto necessario che i partner abbiano dei meriti, che siano entrambi degni d'essere amati e per questo si deve presumere che gli amici abbiano la stessa capacità di valutare i meriti di qualcun altro, dunque una conoscenza comune di ciò che fa valore»[4] . Perché l'amicizia è un'uguaglianza, infatti da entrambe le parti derivano gli stessi vantaggi che gli uni vogliono dagli altri, oppure si scambiano un tipo di vantaggio con un altro[5]. In questo senso tra l'amicizia e la giustizia ci sono delle forti implicazioni, nel senso che vi è ancora il legame tra l'amicizia e la valutazione dei meriti.


L'eros è, in primo luogo, desiderio terreno, perché la forza del desiderio implica necessariamente oggetti da desiderare e, nello stesso tempo, la presa d'atto della mancanza del desiderio che si desidera. «La struttura dualistica dell'eros ingenera una specifica costruzione della relazione particolare-generale che racchiude una tensione irriducibile. L'amore (…) è sempre desiderio di elevarsi dall'inferiore al superiore, non può trovare soddisfazione seguendo il primo movimento che lo porta verso esseri individuali. Per compiersi pienamente, deve staccarsi dall'oggetto immediato per risalire alle idee generali che sottendono, in realtà, al desiderio»[6] . Sappiamo che in Freud, così come in Durkheim, la sessualità è fondata sul primato della desiderio e dei effetti distruttivi quando è orientato verso il possesso. Possesso per il quale gli uomini ingaggiano una competizione violenta.  Per Boltanski la pulsione sessuale  è deviata dalla violenza, determinata questa dalla cattiva reciprocità del desiderio, un'energia dunque pericolosa repressa e rimossa verso altre attività[7]. Meccanismo questo posto all'origine della società e che si ripete in ogni uomo e che indica anche il passaggio dal particolare al generale. In pratica, non è solo questione del singolo ma dell'intera società e per questo motivo la “cattiva reciprocità del desiderio” per essere orientata verso la “buona reciprocità delle relazioni solidali” deve essere prima staccata dall'idea del singolo e estesa all'umanità in generale: l'eros si trasforma in amicizia, in amore verso l'umanità in generale. In questo schema l'esistenza di un ordine sociale è assicurata dalla possibilità che il desiderio si muova su un asse che va dal singolare al generale, ossia dalle pulsioni particolari del singolo indirizzate però verso la collettività e, esteriorizzando come rappresentazioni collettive e reinteriorizzata sotto forma di valori morali, si assicura il controllo dei propri appetiti[8]

Diversamente dall'eros, l'agape non si eleva a ciò che è superiore e non contiene l'idea di desiderio, essendo costruita interamente sulla nozione di dono[9]. L'agape è dunque totalmente indipendente dal desiderio, non solo da quello più specificatamente erotico e terreno, ma anche quello cosiddetto divino, ossia dell'amore che porta l'individuo all'idea di trascendenza. Con l'agape non esiste l'idea di possesso e quindi la sofferenza qualora l'oggetto desiderato ci venisse portato via. Ma l'agape è diversa anche dalla philia, perché quest'ultima è fondata sul rapporto di reciprocità, mentre l'agape è fondata sul dono incondizionato che non si aspetta un ritorno di nessun genere, né di oggetti né in  veste di scambio d'amore. L'agape, a differenza della philia, non poggia su di uno schema interazionista, non è una sequenza di mosse e contromosse, evidentemente indispensabili come oggetto di studio in tutte le teorie dell'azione sociale. E questo perché l'agape non ha bisogno di ricorrere ad una misura di valore[10]. Nell'agape non c'è vendetta né perdono, l'atemporalità nega anche tutte le implicazioni del ricordo e del dimenticare:«La capacità di oblio non è in pratica che il risultato dell'applicazione agli errori come particolare insieme di oggetti, di una proprietà più generale che definisce il rapporto delle persone, immerse in questo stato d'amore, con il tempo. Contrariamente all'ordine della giustizia, ma anche diversamente dall'eros, l'agape possiede in effetti un originale orientamento temporale»[11]. La giustizia viaggia verso una temporalità calcolata dal senso del passato, perché gli atti devono essere stati prima compiuti per essere poi giudicati e soppesati; l'eros invece è volto all'avvenire, al momento posticipato del compimento; l'agape si mantiene ostinatamente nel presente[12].
Una volta che Boltanski traccia il senso d'amore collettivo e incondizionato da alcun paradosso giustizialista del dono e del contro-dono, necessario nella philia, né il fardello pulsionale del desiderio tipico dell'eros, si chiede se e in che misura sia veramente possibile la messa in atto dell'agape[13]. Già Durkheim aveva sviluppato una teoria dell'altruismo come modalità relazionale sociale, da contrapporre alla logica dell'interesse: in pratica l'amore di sé si contrapporrebbe l'amore della società. Anche in Marx, la soluzione per una giustizia sociale equa e non alienata risponderebbe ai valori comunisti. Ma, sia la teoria durkheniana di una solidarietà sociale sia quella rivoluzionaria marxiana, l'utopia si scontra contro una realtà alienata magistralmente creata dalla società industriale. Quindi l'agape è anch'essa solo una forma d'amore utopica? «(...) diversamente dalle altre concezioni dell'amore alle quali hanno fatto ampio ricorso le diverse scienze sociali, l'attaccamento definito come naturale e radicato nella biologia, desiderio di possesso o di sublimazione, o ancora relazione di reciprocità tra persone che si apprezzano vicendevolmente, l'agape possiede proprietà particolari, come la preferenza accordata al presente, il rifiuto del confronto e dell'equivalenza, il silenzio dei desideri o, ancora, l'assenza di anticipazioni nell'interazione (...)»[14]. Eppure, nonostante le ovvie problematiche una società basata sull'agape è possibile: attraverso il disinteresse collettivo per il calcolo. «(...) un mondo immerso nel regime di agape potrebbe senza dubbio approntare forme di auto-organizzazione dalle quali emergerebbe uno stato stabile, con particolarità che una delle condizioni del raggiungimento di un equilibrio è che nessuno se lo prefigga  esplicitamente. (…) affinché il regime si mantenga, bisogna che tutti siano pervasi dallo stesso disinteresse per il calcolo e che tutti dispongano delle medesime risorse necessarie per compiere, su se stessi e sugli altri, il lavoro che assicura l'inibizione delle capacità di calcolo naturalmente presenti nelle persone umane»[15]. La formula magica proposta dal Boltanski risiede proprio nel suo allontanamento dalla prospettiva interazionista. «Infatti, non essendo l'agape un modello interazionista, nel quale ciascuno incorpora alla propria condotta l'anticipazione della rispsota degli altri, le persone non hanno bisogno, per comportarsi secondo la logica, di questo regime, di sapere che gli altri fanno altrettanto»[16]. Lo stesso sociologo francese, tuttavia, definisce questo stato “una forma di agape pura” che, evidentemente presuppone una serie di meccanismi sociali davvero complicati da attuarsi perché ogni singolo individuo tende a calcolare la propria azione anche attraverso le azioni degli altri: è una forma di controllo e nello stesso tempo di protezione sociale. Per analizzare un regime possibile di agape è opportuno – sostiene Boltanski – tralasciare la relazione tra esseri umani immersi nella violenza e persone imperturbabilmente radicate nell'amore, per interessarci al rapporto che si instaura tra coloro che sono nell'amore e coloro che sono nella giustizia[17]. Perché «L'amore, nel senso di agape, può aprirsi un cammino verso l'espressione solo nella tensione che intrattiene con la giustizia»[18]. La teoria cardine di Boltanski è che ogni regime segue le regole del divenire dialettico (nel senso marxiano del termine) e che, non cessa di seguire il proprio corso se non per oscillare in un altro[19]. In questo senso il passaggio dalla giustizia è sicuramente in grado di porre fine alla violenza, ma ci si deve rifare ad un altro orientamento  per includere la possibilità di porre fine alla disputa condotta dalla giustizia.
Sappiamo che l'eros è contrassegnato dal desiderio e dal soddisfacimento dei bisogni, per uscire dall'amore è dunque necessario rifarsi a qualcosa che proviene da colui al quale l'amore si rivolge. In questo regime, in cui l'eros non è vincolato come nella philia, la filosofia del dono e contro-dono, non resta che eliminare un unico desiderio: quello del dare. Come? Attraverso il rifiuto del dono stesso. Solo con tale rifiuto si può abolire lo scarto tra eros e agape perché verrebbe meno il paradosso del contro-dono, ossia l'esigenza di contraccambiare il dono ricevuto, cosa per altro che farebbe oscillare all'interno del regime della philia, della giustizia. L'innamorato non necessariamente si aspetta di essere a sua volta amato, se non nella situazione  in cui la giustizia entra nel merito della questione, e in quel caso che il partner che riceve una risposta al suo dono ritiene che le regole dello scambio non sono state rispettate. Ma nel regime di agape le uniche regole del gioco sono che non ci sono calcoli o aspettative: l'unica regola è vivere il presente donando o ricevendo in una dimensione non individuale bensì sociale. Per uscire dallo stato di giustizia è sempre il rifiuto a venire in aiuto: rifiutare il dono. «Per amore della giustizia può rifiutarsi di rompere la reciprocità (…) e proseguire il gioco rielaborando il proprio slancio in modo che liberi l'intenzione di donare. Potrà allora compiere il passaggio dall'oggetto al dono che segna l'ingresso all'agape»[20]. In estrema sintesi la rinuncia a rendere, ma non a ricevere, assicura la possibilità di un'oscillazione nella logica dell'agape.



[1]    Luc Boltanski, “Stati di pace. Una sociologia dell'amore”, cit.  pag,39
[2]    A tale riguardo si pensi alla guerra fredda tra Usa e Urss, subito dopo il secondo conflitto mondiale.
[3]    Cit.  pag. 40
[4]    Ivi, pag.62
[5]    Aristotele, L’Etica Nicomachea.
[6]    Cit, pag. 67.
[7]    Marcuse sosterrà che la sessualità è stata rimossa e spostata verso il lavoro alienato.
[8]    Cit,  pag. 71
[9]    Ivi, pag. 124: «Il dono scambiato racchiude evidentemente un paradosso e l'espressione stessa di scambio di dono costituisce una contraddizione in termini. Infatti, o s'insiste sul dono, cioè come proprio sul carattere gratuito del regalo, perdendo di vista lo scambio, o si pone l'accento su quest'ultimo, e la gratuità del dono non può più apparire altro che un'illusione, se non addirittura un inganno».
[10] Ivi,  pag.77
[11]  Ivi, pag.82
[12] Ibidem, pag.82
[13] Ivi, pag. 109: «Il problema del realismo dell'agape. Già spinoso per la teologia, è stato risolutamente scartato dalla scienze sociali e dalle discipline da cui provengono».
[14] Ivi, pag.135
[15]  Ivi, pag.141
[16] Ibidem, pag, 141
[17] Ivi, pag.142
[18] Ivi, pag.144
[19] Ivi, pag.148
[20] Ivi, pag.156
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