L’altra mattina un’amica mi ha chiesto se ritenevo possibile l’amore eterno. Le questioni d’amore hanno sempre il loro fascino si sa, probabilmente perché non ci sono mai delle vere risposte: ognuno dice la sua in base alle proprie esperienze o anche in base alle esperienze altrui.
L’amore è eterno finché dura, recitava il titolo di un film di Carlo Verdone e, al di là della battuta, credo che la verità di questa affermazione si trovi in mezzo tra l’eternità di un battito di ciglia e quell’idea di amore che ci ostiniamo romanticamente e acriticamente a voler accettare. Perché credere che al mondo ci sia qualcosa di eterno e di duraturo (là dove le uniche cose che non marciscono sono i surgelati che ci salvano la sera quando, stanche dal lavoro, ci accorgiamo che dentro la dispensa non abbiamo assolutamente nulla e quelle poche cibarie sparse nel frigo sono oramai scadute), è catartico, necessario per prendere sonno, opportuno per iniziare col sorriso pieno di speranza un nuovo giorno. Perché è l’amore che ci permette di sognare… Già nel miei scritti presenti in questo blog, “L’amore come collante sociale, l’eros come controllo sociale, e in “Masturbazioni sociali” ho cercato di analizzare cosa s’intenda per innamoramento. Da un punto di vista sociale è chiaro che quando si parla di amore s’interpreta la vita di coppia in particolare e la condivisione in generale, ma da un punto di vista spiccatamente neuronale si tratta solo di sinapsi e amigdala, neuroni e dosaggi chimici dei vari ormoni. E se la neuroscienza non fa sognare, la sociologia dell’amore dice che amare è dare più che ricevere, e lo è sia che si tratti di philia o di agapè, sia che si tratti di eros. In poche parole amare significa condividere, possedere insieme e se vogliamo continuare con le speculazioni etimologiche potremmo dire che amare significa dare qualcosa di nostro a qualcun altro.
1 commenti:
La domanda è: perché tutto questo fa così paura? In realtà la risposta non è poi così complessa: darsi significa affidarsi e quindi immediata è la proiezione dei nostri desideri sulla persona alla quale stiamo affidando il nostro cuore. Ma per quanto l’uomo sia stato pensato per vivere in compagnia è comunque una monade nel suo stato psichico e questo rende difficile la comprensione tra le monadi.
Ma il punto è un altro…
Secondo un giornale on line, di cui spesso dubito della sua capacità di raccontare la verità ma di cui non dubito mai la sua capacità di raccontare, pare che in Giappone sempre più uomini vengano colpiti dalla sindrome del celibato: milioni di scapoli giapponesi non sarebbero interessati ad avere una relazione, né a lungo né a breve termine, anche solo basata sul sesso. Se la notizia dovesse essere vera ci sarebbe da preoccuparsi, vuoi perché in questo modo si verrebbe ad alterare il significato antropologico dell’essere uomo (e da sempre l’essere umano è un animale sociale e non nel senso politico del termine), vuoi perché questo implicherebbe l’estinzione della razza umana. Perché si sa che le mode più inutili sono anche quelle che più riescono ad avere affiliati e fedelissimi: oggi sono i giapponesi a preferire il sesso fai da te al rapporto di condivisione reciproca, domani è tutto il resto del mondo. Se devo essere sincera non credo molto a questa notizia, ma è anche vero che sempre più spesso la paura della vita vera, con troppe variabili dipendenti e indipendenti, fa sì che si preferisca la vita virtuale dove con un click è possibile modificare uno status o cancellare una persona. Niente lacrime, niente recriminazioni, solo un blocco alle impostazioni della privacy e la persona che prima esisteva smette di esistere. È talmente semplice da apparire assolutamente naturale, nel senso antropologico del termine.
Perché l’assenza di prove non prova niente…
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